Zvejbach, Vladimir

Vladimir Zvejbach

Биография поэта Владимира Цвейбаха на итал.

M. Talalay. Viaggiatore verso altri mondi [Путешественник к другим мирам] // Vladimir Zvejbach. Russia mia Russia. Firenze: Edizioni Polistampa, 2003. PP. 7-12. 

 

 

 

Riflessioni sul testo
“RUSSIA MIA RUSSIA”
di Vladimir Zveibach

“La parabola della mia poesia è finita”. Con queste parole il Poeta russo Vladimir Zveibach mi rivelava nel settembre del 1995 che la sua malattia era incurabile. Nato a San Pietroburgo nel 1937, esiliato volontariamente a Firenze alla fine degli anni ’70, medico omeopata di antica tradizione familiare, aveva continuato a pubblicare a Firenze, dove si era stabilito e dove esercitava la professione, numerose raccolte di liriche, fino alla fine della sua vita, quando la malattia aveva ormai divorato tutto, esclusa la sua dignità e la fede nella poesia, una passione nata dal suo amore per la vita e dalla nostalgia per la sua patria.
L’amore per la vita consisteva in una incessante e inesauribile curiosità verso il mondo, che lo aveva portato a percorrere “a piedi”, come lui diceva, per scoprirlo meglio e con la lentezza dei tempi dello sguardo, l’immensità della sua terra, della sua Russia. Una poesia dunque la sua intrisa di fermenti di libertà e al tempo stesso di drammatica nostalgia e malinconia per tutto ciò che rappresentava il suo mondo di origine e che aveva dovuto abbandonare:
“Esco sul crocevia / ce ne sono tanti sparsi per la Russia / li ho vissuti, amati, traversati / Ne sono rimasti molti nel mio cuore / Russia mia Russia. / Paese di strade a me care / ti ho percorsa in lungo e in largo / ti ho amata e mi struggo per te”.
L’unico scopo infatti per i russi in esilio è quello di far conoscere veramente la Russia all’Europa. Perché quando la poesia canta la libertà e la dignità dell’uomo, l’esilio diventa inevitabile e l’emarginazione sociale e politica diventa una necessità. Vladimir Zveibach non fece eccezione. Lo sapeva e aveva preferito scrivere le sue poesie in esilio, continuando a pubblicare le sue liriche, un canto ininterrotto alla bellezza, alla gioia della vita, dimostrando così che nessuna violenza, nessun regime era stato n grado di reprimere il suo grido verso la libertà e annullare l’amore per la vita e il creato, fonte per lui di tante emozioni.
RUSSIA MIA RUSSIA, uscito postumo nell’ottobre del 2003, è il risultato di un lavoro di riordino e di revisione dei poemi epici e delle liriche dedicate alla Russia che l’Autore desiderava ardentemente venissero pubblicate in lingua italiana, un lavoro complesso e difficile, dato lo stato in cui si trovavano i manoscritti inediti. Consapevole di morire aveva affidato a Donatella Tesi e a Maurizio Bossi il compito doloroso e morale della pubblicazione. E credo che non sia casuale che il libro sia stato pubblicato proprio come un omaggio alla sua Russia (nell’anno in cui si celebra il trecentesimo anniversario della fondazione) alla Leningrado – San Pietroburgo di Vladimir Zveibach, che le sue parole e la sua poesia hanno fatto sentire familiare e vicina a chi lo ha conosciuto.
RUSSIA MIA RUSSIA è un libro complesso, perché è l’opera di una vita che tocca quindi tutti i temi e i motivi dell’essere umano e in questo caso di un esule russo.
All’interno delle correnti di emigrazione da sempre la poesia ha svolto un ruolo fondamentale quale vivo legame con la propria identità nazionale insieme allo scopo di tramandare e conservare un retaggio poetico plurisecolare che si vedeva minacciato dai regimi sovietici. Scrivere versi era soprattutto testimoniare del passato del proprio Paese, nel tentativo di determinare e affermare la propria identità in una terra straniera, una testimonianza che non è solo un fatto artistico, ma diventa un vero e proprio documento sociale. In questa prospettiva va considerata l’Opera RUSSIA MIA RUSSIA, che non è solo una testimonianza preziosa, un documento storico sociale, ma è il libro di una vita, il punto di arrivo di un’intera esistenza, il “proprio libro poetico” che si articola a sua volta in una complessa serie di libri narrativi e di cicli poetici. Parlo di punto di arrivo perché il volume era stato preceduto da una decina di libri di liriche pubblicati a Firenze dagli anni ’80 agli anni ’90. Non si tratta quindi di una raccolta di poesie, bensì di un grande Poema autobiografico diviso in quattro libri – parti dove l’io narrante è il Poeta stesso: Poema della memoria di un uomo che manifesta la sua esistenza nelle sue molteplici drammatiche realtà e dimensioni sociali e umane.
Il cammino autobiografico dell’Autore inizia con il Primo Libro RUSSIA MIA RUSSIA in cui percorre gli anni dell’infanzia, rivive l’esperienza dell’assedio di Leningrado, gli anni della scuola, la vita di coabitazione negli anni post-bellici, traccia i ritratti dei propri cari, amici, vicini di casa. In questo libro appare la volontà di esprimere uno spaccato della realtà sovietica del primo dopoguerra, la sua quotidianità, le sue gioie e illusioni e le profonde delusioni. Ma il tema predominante che prevale e percorre con intensità lirica ed emotiva tutto il primo libro è rappresentato dai tempi tradizionali della Russia derivati dalla famiglia della madre, e dalla nonna materna, i Kasĩn.
Nei due poemi Mattino in un villaggio russo e Meriggio in un villaggio russo, appaiono forti gli elementi simbolo del folclore russo: l’isba, la donna russa, la contadina, la candela davanti all’icona, la madre, la terra. Elementi così compenetrati da fondersi l’uno nell’altro in una vera e propria poetica personificazione. Così l’amore verso la sua terra si identifica con l’amore per l’isba:
“Dalla cara isba chiassosa / si leva un filo di fumo / c’è in essa il destino della Russia / l’isba preserva la Russia / portando il peso su di sé. /”.
La personificazione continua e identifica la terra con la donna amata:
“Donati a me vasta Russia / nuda distenditi silenziosa / confluiremo in torrenti d’amore”.
Le stesse persone derivano la loro forza dalla madre-terra, così il popolo trae la sua forza dal bosco fino a diventare il bosco stesso: “Come un bosco il popolo invade la terra…”.
È tale la forza espressiva di questa poesia, che il lettore si sente avvolto dall’atmosfera del villaggio russo, dei suoi stessi odori, sapori e colori. Infatti caratteristico di questi poemi è l’uso dell’aggettivo in colore: “Il cielo azzurrofumo”, “Lontananze violazzurre nel riflesso grigiobianco”. Qui l’aggettivo è capace di definire uno stato d’animo mentre si mescolano i simboli della Russia: le donne russe sono spighe di grano, i tronchi bianchi delle betulle sono fiori in mezzo al crudo inverno. Anche la madre della sua vita gli appare in colori, col “nero della sua terra nera” perché Kasĩn è il Popolo, costruttore della vera vita, e di questa vita Alba. Russia – terra – madre, la personificazione è adesso perfetta, tutto si è fuso in un solo concetto, il mistero dell’amore le ha intrecciate, le tragedie le hanno strette in un abbraccio.
Il villaggio ormai non esiste più, ma ne resta la memoria nei versi del Poeta con gli elementi-simboli che lo caratterizzano. Sempre nel Primo Libro troviamo completamente diversi i poemi Ricordi dell’Assedio e Il Cortile. In dei versi molto sofferti l’Autore afferma che Leningrado è stato “il lungo e affannato incubo della sua vita”. I ricordi di un bambino di quattro anni riaffiorano con estrema crudezza; quegli anni sono stati un orrido vuoto spalancato fatto di morte, con le immagini dei cadaveri per le strade grigio-blu e gialli, dei bombardamenti, della fame, il cannibalismo e i saccheggi. Bombe, distruzione, sangue, urlo di sirene, tutto si imprime nella mente di questo bambino e lì rimarrà per sempre, un ricordo cupo, ferita insanabile, per tutta la vita. Forse per uscire da questo incubo, il bambino sviluppa difese e risorse e una inesauribile curiosità di vivere che lo porterà ad innamorarsi del mondo, per stratificare, con la sublimazione poetica del reale, l’orrore vissuto nell’infanzia.
Questa analisi cruda della realtà prosegue nei due Poemi Il cortile e l’appartamento comunitario dove si avverte una sorte di ironia nonostante lo squallore della situazione. L’Autore si rivela quel curioso osservatore della natura umana che lo porterà a fare il medico di professione, il viaggiatore per passione, e il Poeta per vocazione. Con la curiosità del bambino uscito dall’inverno gelido e roso di sangue della Leningrado assediata, l’Autore guarda adesso lo scenario che lo circonda come in un teatro, dove i personaggi sono persone semplici e comuni, buone o crudeli, con le loro debolezze umane, segnate dalla guerra, un vero e proprio teatro della vita, uno spettacolo dell’umanità che lo circonda. Da ognuno si può trarre la sua “essenza caratteriale”, che l’Autore conserverà dentro di sé come fonte, origine, ricchezza interiore di infinita consapevolezza dell’essere-uomo nelle molteplici e svariate situazioni della vita che lui saprà comprendere:
“Ogni uomo ha la sua curva, e bisogna rispettarla fin dall’infanzia e soprattutto comprenderla”.
La curva della vita si dipana per ora nell’Autore adolescente nell’orrido vuoto spalancato del cortile che sta di fronte alla sua casa, a Leningrado: “Il nostro cortile cade come un pozzo dal cielo imbronciato e nuvoloso”. È un buco nero, un vuoto spalancato dalla guerra con odore di aggressività e miseria, è come un’altra finestra sulla morte. Dopo la guerra, in assenza di un nemico comune, le persone si aggrediscono a vicenda, inferocite dalla povertà e dalla propria impotenza. Ma nonostante tutto la volontà di esistere, di rimanere, di restare in vita prevale, nonostante tutto la guerra fonde insieme gli sforzi si tutti, il dolore, l’amore, l’odio, e trasforma i sentimenti in un unico slancio: sopravvivere e vincere.
Nel Poema Le Scuole si comprende bene come l’incontro con degli ottimi insegnanti abbia formato il carattere e la cultura del nostro Poeta.
Anche la scuola è un palcoscenico dove lo scolaro curioso apprende da ogni insegnante qualcosa di essenziale sulla vita. Gli amici, i compagni, le prime delusioni, anni di gioco e di studio, le gite nei grandi boschi della Karelia, tutto viene raccontato e descritto e resterà come sfondo successivo di tanti suoi poemi. Insegnamenti e parole, immagini della sua adolescenza nella grande Russia che resteranno scolpite per sempre nella sua poesia, uno scenario parte indimenticabile della vita.

Con il Secondo Libro LA SINFONIA DELLA KAMČATKA la prospettiva cambia completamente. Siamo nella Russia del Nord, immobile e gelata tra ghiacciai e mare, dove il Poeta, inviato a svolgere la sua professione di medico, vive un periodo di grande fertilità creativa; a contatto con gente dal cuore duro e forte. Dal vivere in questa terra fatta di vulcani e mari in tempesta sgorgheranno versi di un vigore e di una forza espressiva eccezionale. È il vigore della gioventù che innerva di sé tutti i poemi, mai più così intenso e inarrestabile, come la violenza stessa di questa terra. Anche qui l’Autore è spettatore di uno straordinario spettacolo naturale; e, a sua volta, artefice poetico di esso. Quello che vede è ben diverso dall’incanto poetico di quel mondo rurale-contadino descritto nel Primo Libro e dai suoi orribili ricordi di fame e gelo. In questo Libro si esprime finalmente quell’“aroma per i viaggi”, quella sua passione di vedere e percorrere la Russia che esplode in versi irruenti proprio come il vulcano che domina questa parte del mondo: “Urla il vento tempestoso, gira, turbina, si scaglia”. E anche in questo Libro si verifica l’identificazione tra l’uomo e la natura. I pescatori vengono dal mare:
“Siamo spruzzi, siamo acqua e salmastro / con istinto animale e selvaggio / viviamo e salpiamo le navi / radicati nelle onde marine / nell’ira superba dell’onda / tutt’uno con l’onda potente / divenuti la furia del mare / nella sua furia entrati / con essa vinceremo i mari…”.
Gli uomini del Nord sono coraggiosi, ma sono anche feroci e crudeli, capaci di uccidere. La ragazza del Golfo personaggio di un poema, è una vittima di questo spietato mondo del Nord. Questa ragazza, una contadina venuta da qualche villaggio della Russia, giunta sul remoto Nord in cerca del proprio destino, fu uccisa
“sul fiore dei suoi diciotto anni / strisciava di notte nel buio / perdendo il suo cuore e il suo sangue / giaceva nell’estuario di due fiumi / nel riposo non chiesto / nel sogno ancora mai nato. / I gabbiani volano sul mare / lanciando strida e lamenti…”.
Le figure di donne sono molto importanti in questo Libro, e appaiono diverse da quelle descritte nel Primo Libro, di quel mondo contadino nel quale “Maria siede al telaio canta commessa una canzone, ricamando su trama di tessuto, intreccia un motivo di filigrana, col riso da icona di Rublev”. In questa “Terra del sole nascente”, le donne appaiono in colori, rossi – grigi – neri, sono coppe bollenti di geyser, piene di zolfo. È l’incontro giovanile con l’altro sesso, autentico e gioioso. Anya, ninfa dei boschi Koryaki, è una creatura marina, personaggio scolpito nella sua anima, come una colpa mai rimossa, perché da lui rifiutata. Ricompare anche adesso, ci dice il Poeta, sta ancora sotto la sua finestra ad aspettare un cenno d’amore. Talvolta arriva a nuoto, nelle notti antelucane, e rimane lì, davanti ai suoi occhi ad attendere quell’amore non ricevuto:
“Non si è spento il senso di colpa e tutt’ora si aggira in me il corpo nudo, implorante / mi fa impazzire di notte e talvolta giunge in volo nelle mie notti antelucane”.
Altre donne lo attraggono:
“Mia prima donna / fontana bollente di lava / con una nudità di estate nevosa / desiderio, sete, gioia. / Braccia intrecciate come rami / dal richiamo dei corpi. / Mia prima donna / sensuale, liscia, desiderata, calda, peccaminosa”.
In questa esperienza nella Kamčakta, l’Autore diventa vero Poeta e vero Uomo. Le sue liriche prendono distanza dai modelli ottocenteschi, ma acquistano un’energia propria, derivando da questa terra, proprio come da una vera donna, maturità e originalità, e quindi una reale identità di Poesia. Il magma infuocato delle liriche nate da questa terra non si esaurirà mai, perché questo luogo rimarrà dentro il vulcano della sua anima quale energia vitale pronta di nuovo ad esplodere, fuoco indomabile, ricchezza e forza alle quali attingere e poi riversare nei suoi versi. Comparirà per sempre nel suo immaginario poetico la “Terra del sole nascente”, culla di venti e tempeste, furia e minaccia dei geyser, tappeto rosso dei colli, trafitto dal cono del vulcano. Nel suo sguardo resterà questo anfiteatro di aiuole montane, sopra la gola del golfo e il volo dei gabbiani che, con melanconico slancio, con amore, montano la guardia volando solitari sulla Baia Occhigrigi mentre le nubi passano come rose al tramonto.

Il Terzo Libro il CANTO DELL’AMORE è composto di poemi autobiografici nei quali scorrono le immagini di tante regioni e paesi dell’ex Unione Sovietica (dal Caucaso al Baltico) a cui è legata la vita del Poeta. In queste liriche ritorna viva la forza espressiva con descrizioni paesaggistiche percorse dal folclore e dai ricordi e con la testimonianza di una tradizione russa sempre presente. Ritorna anche la consapevolezza di vivere come in uno scenario, da spettatore: “Il nostro teatro correva sull’acqua, teatro di cantanti, pianisti, poeti”.
Lo scorrere del fiume era lo scorrere della vita. Lui guardava incantato “i tronchi caduti in ogni dove, il loro prolungato addio alla vita”.
Iniziano in questo libro i viaggi per la Grande Russia e lo spirito di questi luoghi rimarrà per sempre nella sua poesia: la favolosa bellezza di Suzdal, il dialogo delle campane di Rostov, gli affreschi di Novgorod, la potenza lignea di Kiži. Questi luoghi rivivono nella sua memoria come poemi. A Novgorod è dedicato un intero poema, al luogo dove iniziò la Russia:
“Guardava, ribolliva ebbra la città, la piazza vacillava rumorosa, era l’assemblea di Novgorod che urlava”.
In questa lirica ritorna anche l’identificazione tra la città e un essere vivente. La città urla, grida, soffre “e gli urli delle donne sono intrecciati alle campane”. Ma è questo il LIBRO anche dell’amore verso la donna che diventerà sua moglie, amore iniziato sulla “Rupe delle renne” là dove “Gli Urali si svegliavano al mattino con l’aroma delle erme mietute”. Questo amore è giovane e passionale, ma tenero e incantato, fatto di speranza, slanci, sogni, e tuttavia consapevole della sua fragilità. C’è sempre nella poesia di Zveibach la consapevolezza di vivere un momento unico, irripetibile, ma anche il sentimento doloroso della sua fatale brevità. Quindi è anche un Libro colmo di forte malinconia, perché il Poeta è consapevole di dover un giorno abbandonare i luoghi e perfino le persone amate, sua moglie, la figlia:
“Cosa ci porta il vento della vita? Cosa? La fantasticheria di quale avversità?”.
Il Poeta in questo periodo vive il sentimento di amore per la sua famiglia e si innamora dei viaggi. Forse è proprio per questo che i suoi poemi sono così impregnati di emozione e di entusiasmo, perché i due temi della sua vita (l’amore e i viaggi) sono vissuti contemporaneamente e compenetrano di sé tutto questo Terzo Libro:
“Noi rimaniamo nei viaggi / più spesso che negli incontri / ci forgiamo negli addii”.
L’energia e la forza di questo Libro risiede nel fatto che le due passioni coincidono.
Uomo eternamente in fuga, nel senso di autoconoscenza di sé, l’Autore afferma: “Io, quale arciere, segnerò la mia corsa”. La vita del Poeta sarà infatti tutta un peregrinare in un percorso verso la vetta come lui stesso ci rivela:
“E lo sguardo cerca la vetta / di nuovo soste / di nuovo in cammino,/ in mezzo allo scorrere degli anni./ E come lente salite / l’incessante corsa dei libri / e non c’è riposo in vista / sento sempre il richiamo del cammino”.
I personaggi percorsi insieme agli affetti familiari restano un segno doloroso nel cuore del Poeta, costretto ad abbandonare la Patria, costretto all’esilio. Dramma, ferita insanabile, senso di colpa e di abbandono, tutto si mescolerà con un fondo di amarezza insanabile. L’amore perduto, la famiglia lontana, sta procurando a sé e agli altri tanto dolore, ma il Poeta ci dice:
“Nascondi la tristezza, perché le notti non la vedano / che echeggi il riso / e il cespuglio si infiammi di rose / presso il mare, sull’abisso…”.
E infine tutto si confonde nella nostalgia per la patria perduta, per la sua Pietroburgo con la quale ha bevuto un sorso del destino “nel quale noi per sorte ci siamo intrecciati”.
In questo conflitto e sconvolgimento di sentimenti termina il Terzo Libro, dove l’Autore è consapevole dello strappo irreversibile compiuto e dove il ricordo della “Rupe delle renne” resterà in lui come una “primavera della vita” con la consapevolezza che nulla gli farà dimenticare i suoi affetti più cari, la sua famiglia, la moglie e la figlioletta, perché anche se lontane, lui appartiene a loro, bagaglio a lui così caro “perché voi siete le mie corde che sempre gemono in me”.

Nel Quarto Libro LA RICERCA DEL BELLO, il tema fondamentale è quello del viaggio e della peregrinazione dal Caucaso alla Siberia, dall’Artico all’Asia Centrale, dalla Gerusalemme degli avi alla San Pietroburgo della sua infanzia, e infine ai viaggi in Europa dove si era stabilito. Ed è, allo stesso tempo, una specie di bilancio estetico-biografico nel quale ricompaiono tutti i temi che si intrecciano nel tessuto dei precedenti tre libri: motivi, immagini, personaggi, tutto un cammino che forse, con una fatale premonizione di morte, l’Autore sente concluso. Da qui l’apparente affastellarsi di tutti i temi trattati, quasi volesse lasciare come eredità terrena il suo patrimonio poetico, il suo vissuto, con un flusso vitale ed emotivo che è parte del carattere e del suo irruente e inesauribile desiderio di vivere. Proprio perché il destino lo ha fatto morire, spesso la lettura di questo libro-testamento ci appare davvero interessante e commovente.
Il tema del viaggio è sempre quello dominante. Sappiamo che per chi viaggia è molto più importante da dove si parte che la mèta. A volte la mèta è casuale o non voluta. Ma il luogo d’origine è sempre vicino al Poeta, la Russia, fonte inesauribile di poesia, fine e principio di se stesso, questa terra che vede ormai dall’esilio oppressa e senza libertà:
“Che la libertà non sparga sangue, né un pugno di terra sepolcrale”.
Così scrive versi consapevoli della sofferenza del suo popolo lontano con parole impregnate solo di dolore:
“Le parole – i miei dolori – particelle raggelate di sentimenti, riversate nei poemi”.
Con questa consapevolezza passano i venti anni di esilio della sua vita, sempre volto al passato che ancora gli suggerisce versi dedicati ai luoghi che ha amato: il Caucaso, Samarcanda in bellezza, il canto variato dei bazar, il suono delle lingue diverse a Buhara, i colori delle moschee che ardono di un fuoco multicolore vestite di leggende orientali, città che dormono un sonno antico. E poi il deserto, le curve ondulate delle dune, la sabbia secolare che vi passa, gli indistinti miraggi sospesi. E poi ancora l’Artico dove il paesaggio russo scorre con immagini di ghiaccio:
“La Lena imprigionata dal ghiaccio / si estende e si espande / inchiodata a lui nell’amore./ Sotto di esso scorre impetuosa come un poema / Oh Russia Russia mia / in ceppi sotto il ghiaccio / dorme di un magico sonno / come la forza selvaggia della Lena”.
Mentre dalla Siberia si alzano i gemiti del popolo russo deportato in catene e
“fluisce come un coro di torturati./ In essi una forza indomita / si diffonde dalla Siberia nei secoli… Russia, Russia mia, prigione vivente fino all’urlo…”.
La Siberia di secolo in secolo è stata carcere del pensiero e delle menti libere, ma da oggi la forza poetica del poeta la riscatta e con la sua poesia incita il popolo russo a trovare forza e speranza, ad alzare la fiaccola della libertà e a portarla alta per sempre nei secoli. Dal dolore per la tragedia siberiana nascono i due poemi epici più importanti di questo Quarto Libro !AI CADUTI SIBERIANI” e “AI SOLDATI DELLA GEORGIA”, scheletro della terra siberiana, dove, i giovani morti combattendo, tornano come un esercito dalla morte per essere un rimprovero ai vivi. Essi rimasero distesi tra i campi ancora giovanissimi, le loro tombe sono fredde, coperte di grano siberiano, accarezzate dalla pioggia e dal sole… “Possano essi dormire dolcemente nello scampanio dei secoli…”.
Il Poeta ci presenta ogni lirica come un vero e proprio quadro, dove prevale un colore. Così nel Poema “Maschera dell’orrore”, nel racconto dell’amico torturato e deportato in Siberia, i colori diventano neri, rossi, come sangue raggrumato e si spandono sulla terra gocciolando orrore:
“Cinquemila prigionieri / spediti nell’estremo Nord della Siberia / senza niente / letteralmente gettati in pieno inverno / si immergevano nella terra, nel ghiaccio,/ si attaccavano alla terra / con le mani con gli occhi / con la mente con l’anima”.
In questa lirica, come nelle due precedenti, ritorna forte il dolore per il popolo russo che nei secoli ha subito oppressioni per “un piatto caldo di brodaglia e per un pezzo di pane raffermo” vendendo la propria libertà a qualcuno che vendeva anche l’anima fino a ridurre le persone delle creature spersonalizzate e terrorizzate.
Il palcoscenico di quel teatro che l’Autore fanciullo ci ha presentato nel Primo Libro adesso si è allargato, si è ingrandito senza fine… comprendendo persone e popoli, tutti dipinti nei loro colori:
“La gente della Russia camminava con i suoi colori: Oro, nero, rosa, verde, blu, giallo, col grido nella gola chiedeva libertà, però non sapeva ancora lottare per essa…”.
I personaggi rivisti con l’occhio della maturità e della riflessione sono visti con una grande capacità introspettiva e in ognuno di essi è colto il lato più significativo, anche quello umoristico o ironico. Questo ci fa riflettere sulla grande complessità del carattere russo che, pur nella prigionia e nella sofferenza, sa mantenere la capacità di sorridere, quell’ironia parte del poeta Zveibach, che durante tutta la sua vita ci ha comunicato il suo sorriso, fino alla fine, e le sue parole: “Lo sbaglio di questo regime è che ha spersonalizzato l’uomo”.
Nel Poema “La Galleria di ritratti” le persone sono descritte con le caratteristiche dominanti la loro personalità. Nel Poema sullo Jenisey, il riso corre sul fiume. Il viaggio di cinque giorni sullo Jenisey, che rideva aritmicamente con il Poeta, coinvolgeva anche le città, che ridevano con loro e diventavano un respiro del riso… Tutta la natura rideva, finché il riso e l’ironia diventano protagonisti di questa lirica. Nella raccolta “Galleria di ritratti” ritroviamo l’uso del colore come aggettivo, e così il vento della gioventù diventa “rosaceo” nella bellissima lirica dedicata al primo amore della sua adolescenza. L’aggettivo diventa poesia stessa, le trecce della fanciulla amata sono “solari e svolazzanti”. Lei è “sorridente, scintillante” della gioia della gioventù e il vento è pieno di profumo di miele che abbraccia la sua “vergine, snella, fresca” bellezza. La melodia cantante delle erbe ridenti la bacia e la chiama. Tutto in questa lirica ci parla di gioventù, la bicicletta diventa la bicicletta della felicità, mentre nel corpo della fanciulla appena sfiorato il Poeta sente il profumo di tutti i fiori estivi, perché intuisce di essere ubriaco della pienezza stravolgente della sua vita. Il vento della gioventù di rosa continuerà a spingerlo nella sua corsa dietro altri amori, altre persone e luoghi, sempre ricordando questa bellezza fresca ancora non toccata dalla vita, inondata di abbondante color rosa.
Il profumo degli “Incontri Pietroburghesi” è invece color viola:
“Tutta nel viola dei suoi grandi begli occhi / con modestia adatta a lei / con vergine tenerezza / corre Violetta / e tutto intorno a lei diventa viola / nuotando con fresche odorose nebbie di gioventù”.
Leggendo questi poemi ci si accorge con stupore che, pur nella Russia soffocata dal Comunismo, il carattere del Poeta è rimasto entusiasta e vitale. L’Autore era riuscito a conservare, nonostante tutto, il suo sorriso, la capacità di ridere. Questo significa che gli incontri e le esperienze fatte nell’infanzia e nella gioventù hanno lasciato in lui un segno positivo: “Un’atmosfera tiepida e buona si posava tra tutti i sorrisi che illuminavano di felicità gli occhi” nelle famose serate in casa della nonna materna.
“Tutto danzava / tutto betullava / tutto fioriva / nel giardino di casa di mia nonna / la felicità scorreva come un girotondo / e tutti la sentivamo…”.
È questa atmosfera di amore e di pace che (dopo l’atrocità sofferta durante la guerra), ha sedimentato nella sua anima e gli ha formato il carattere.
L’ironia, o la capacità di ridere e di sorridere, è un mistero nel popolo russo così devastato, definito dal nostro Poeta come “l’argento della luna nella nostra nera e bugiarda realtà”. Un humour fatto di disperazione e di lotta,
“ora triste, ora betullato, ora come un leccio, ora maschile, ora femminile, ora contadino, ora con il cappello”.
Amici, insegnanti, parenti, familiari, tutti sono rimasti in lui. Il Poeta ha saputo apprendere davvero la lezione di conservare in se stesso il meglio di ognuno e di saper accendere il calice del proprio intelletto con il fuoco della saggezza da loro appresa. Ogni persona della sua vita è entrata nella sua Opera e fa parte del palcoscenico, del teatro, e gli ha regalato qualcosa, soprattutto gli antenati ai quali era particolarmente devoto, i principi Kasĩn, che difesero la Russia dalle invasioni dei Tartari. Essi avanzano lentamente su enormi prati di terre appena arate, vanno con cavalli snelli e giovani cavalcando “dall’antichità profonda color ciliegio… e nebbie violette salgono sorridenti incontro alle albe”:
Un’immagine dell’infanzia ritorna ossessiva: la nonna seduta in giardino, di fronte al Samovar, la tata Lipa che versa il profumato tè russo, un’immagine ferma nella memoria e che ci riporta al punto di partenza, alla sua origine, agli Avi, alla Russia, alla madre-terra. Terra, sangue del suo sangue:
“Russia, mia Russia, paese a me caro di strade / su cui ho camminato tanto / che ho descritto,/ ma a descrivere tutto non sono riuscito / Russia, mia Russia / fiaba di fusti bianchi di betulle”.
Perché la ferita dell’esilio è sempre presente nel suo cuore con la separazione dalla patria e dalla famiglia e sempre lo perseguiterà in tutte le sue vicende e nei suoi viaggi fino alla morte:
“Il tempo come un fiume pieno di avvenimenti / dona gioia felicità dolore distacchi / quante persone quanti sentimenti si perdono / incidendo il granito della memoria…”.
Gli anni scorrono senza pietà nella ricerca dell’“Isola della felicità”, poi all’improvviso il Poeta intuisce con chiarezza che ciò che cerchiamo è oggi, è nel presente, è la gioia che riusciamo a trovare nella creatività: la Poesia diventa strumento di conoscenza e di amore verso gli altri.
Il Palcoscenico del suo Teatro è adesso affollato di anime di tutti i colori, variamente raffigurate e dipinte. Esse fluiscono penetrando
“nell’immensità policromatica dell’arcobaleno di abitudini, di lingue e di culture”.
Ma il senso arcano di tutto il racconto di Vladimir Zveibach si svela proprio negli ultimi versi della sua Opera ed è anche il significato che egli ha voluto dare al suo breve passaggio sulla terra: è l’adesione alla vita, la fede nella vita, totale, la ricerca della bellezza, la passione per l’esistenza in ogni sua realtà e manifestazione, “Mentre d’amore sempre cantava il mio usignolo”.

Donatella Tesi
Firenze, 5 ottobre 2004