Ricerca di Anna Roberti sui partigiani sovietici

Anna Roberti. Dal recupero dei corpi al recupero della memoria. Nicola Grosa e i partigiani sovietici nel Sacrario della Resistenza di Torino. Torino, Impremix Edizioni Visual Grafika, 2014, 168 pp.

Anna Roberti, direttrice dell’Associazione culturale ‘Russkij Mir’ di Torino, ha fatto precedere questo volume da lunghe e meticolose ricerche che inizialmente hanno trovato espressione in due film documentari prodotti dalla stessa Russkij Mir.

Il primo, “Rukà ob ruku – Fianco a fianco” (2006, regia di Marcello Varaldi) illustra in generale la partecipazione dei partigiani sovietici in Piemonte. Il secondo, “Nicola Grosa Moderno Antigone” (2012, regia di Mario Garofalo) è invece dedicato ad un personaggio singolare che consacrò tutta la sua vita ad un’opera nobilissima: la ricerca dei corpi dei partigiani morti durante la Resistenza. Fu proprio grazie all’attività di Nicola Grosa che, negli Anni Sessanta, venne inaugurato a Torino il ‘Sacrario della Resistenza’ (già ‘Campo della Gloria’): qui furono anche traslati i resti di un centinaio di sovietici (allora indicati genericamente come ‘russi’) che avevano combattuto in Italia contro il nazifascismo.

Durante la lavorazione di questi due documentari, mentre veniva raccolto materiale storico inedito, Anna Roberti ha maturato l’intenzione di pubblicare il volume «Nicola Grosa e i partigiani sovietici nel Sacrario della Resistenza di Torino».

Sottolineiamo fin da subito che il contenuto del libro è molto più ampio di quanto promesso dal titolo. L’Autrice illumina in profondità il contesto di quel drammatico periodo e spiega al lettore le cause della comparsa dei soldati dell’Armata Rossa sul territorio italiano e la loro massiccia partecipazione alla Resistenza (i partigiani sovietici in Italia furono circa seimila, di tutte le nazionalità). Roberti narra ciò che per lungo tempo è passato sotto silenzio: molti soldati sovietici si unirono ai partigiani dopo una forzata collaborazione con i tedeschi che li avevano fatti prigionieri.

Solo nei primi sei mesi di occupazione del territorio sovietico vennero fatti prigionieri dai tre ai quattro milioni di soldati dell’Armata Rossa. Proprio in questi tragici mesi i tedeschi iniziarono a creare reparti militari della Wehrmacht in cui vennero arruolati soldati sovietici prigionieri, mentre altri venivano impiegati come lavoratori coatti nelle retrovie o come ‘ausiliari’. Le teorie razziali sulla supremazia dei popoli ariani (compresi i caucasici) si accompagnavano ad una veemente propaganda anticomunista. Fu così che una parte dei prigionieri, dovendo scegliere tra la vita e la morte e sapendo che il governo di Stalin li aveva rinnegati, passò con il nemico. Alcuni erano mossi da un sentimento patriottico che i tedeschi colsero al volo, promettendo l’indipendenza ai popoli del Caucaso e dell’Asia centrale da cui avrebbero cacciato il ‘governo bolscevico moscovita’. Fu in queste circostanze che, alla fine del 1941, vennero create le Legioni orientali su base nazionale. Nel 1943 lo stesso Hitler diede ordine di trasferire i ‘legionari’ dal fronte orientale all’Europa occidentale, sperando in tal modo di arginare il divampante movimento della Resistenza. La storia, però, prese un’altra direzione. Nel documentario “Rukà ob ruku” un partigiano italiano dice: “E’ vero, loro erano arrivati in Italia con il nemico, ma molti passarono dalla nostra parte”.

Dopo la vittoria sul nazifascismo, fu l’A.N.P.I. (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) ad occuparsi di curare le tombe dei partigiani caduti sul territorio italiano, comprese quelle dei sovietici; il periodo di massima attenzione verso le loro sepolture si registrò negli Anni Sessanta e Settanta, e un contributo importante in tal senso fu offerto dall’Associazione Italia-URSS.

In seguito al dissolvimento dell’URSS e a revisionismi d’ogni sorta, l’interesse verso le sepolture e i destini dei partigiani sovietici è bruscamente diminuito. Anna Roberti rivolge nuovamente l’attenzione verso questo importantissimo fenomeno della storia europea del Novecento e gli conferisce il valore che merita. Il volume non rappresenta solo una ricerca storica, è anche un avvincente reportage: come risultato, dietro ai nomi incisi sulle lapidi (talora stravaganti e non di rado incomprensibili) si ergono persone concrete con il loro drammatico destino. Anna Roberti ha proseguito con successo la missione di Nicola Grosa: dal recupero dei corpi, al recupero della memoria.

Michail Talalay

Il numero di febbraio 2015 di Sfogliando la Russia

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