Buslaev Fёdor ad Ischia

Fёdor I. Buslaev 

Soltanto sull’isola di Ischia…

Ricordi inediti del viaggiatore russo nel 1840

A cura di Michail Talalay

Traduzione dal russo di Marina Moretti

Fёdor Ivanovič Buslaev (1818-1987) è uno dei più importanti filologi del Novecento russo, membro dell’Accademia Russa delle Scienze. Dopo i primi anni della carriera umanistica come un tutore della ricchissima famiglia Stroganov (Stroganоff) è stato nominato nel 1847 professore dell’Università di Mosca, indirizzando i suoi studi nel campo della civiltà linguistica slava, della letteratura russa antica, della creazione orale popolare, dell’antica arte figurative russa. Le sue innovative e brillante ricerche hanno conservato il valore scientifico fino oggi, come un fondamento della russistica. Con la vecchia l’accademico ha perso la vista e si è ritirato dall’attività scientifica. Un suo amico dopo aver visto una profonda frustrazione di Buslaev l’ho proposto di dettare i suoi ricordi. Così nacque il libro Moj vospominanija [I miei ricordi] (Mosca 1897) pubblicato nell’anno della morte dell’autore. I suoi scritti sono rimasti inediti in Italia ad esclusione del suo resoconto del viaggio in Costiera Amalfitana, cfr. M. Talalay,Viaggiatori russi ad Amalfi e Ravello // Rassegna del Centro di cultura e storia Amalfitana, № 25, 2003, pp. 157-168. Ora proponiamo ai lettori un frammento dei suoi ricordi dedicati ad Ischia.

<…> Ero ormai in grado di cogliere l’eleganza nell’arte, ma la bellezza del paesaggio mi lasciava completamente indifferente. Il mio atteggiamento nei suoi confronti era quello egoistico e interessato del popolano che vede la natura soltanto in funzione della comodità e dell’utilità, oppure del fastidio e del danno che procura all’uomo.

In questo senso ero quasi al livello del nostro buon servitore Pašorin, che non poteva soffrire tutte quelle montagne che si rizzavano in alto senza necessità e, seduto a cassetta del nostro calesse, guardava di pessimo umore la profondità dei burroni costeggiati dalla nostra strada e scuoteva con disprezzo la testa borbottando qualcosa tra sé. Io e lui eravamo ancora in una fase simile a quella del famoso viaggiatore omerico Odisseo, che apprezzava le qualità paesaggistiche di un luogo selvaggio e incolto soltanto da un punto di vista pratico: le coltivazioni che si sarebbero potute fare, i campi di grano o le vigne, i pascoli per le greggi. In quello stato d’animo omerico, incapace del godimento estetico delle bellezze della natura, io trascorsi quasi un anno in Italia; persino l’incomparabile golfo di Napoli con le sue incantevoli rive, sulle quali trascorsi tutto l’inverno fino alla fine di aprile, non riuscì a conquistare il mio cuore con il suo incanto.

Soltanto sull’isola di Ischia, dove ci trasferimmo per l’estate, per la prima volta nel mio cuore si destò il senso estetico per le manifestazioni della natura. Lo risvegliò nella mia anima il più grande dei pittori di tutti i tempi e di tutto il mondo: il sole.

La nostra villa si trovava sulla più alta terrazza dell’alta montagna che, ergendosi dalle profondità marine con il suo cratere vulcanico e con rocce, valli, gole, strapiombi, forma quest’isola, che si chiama Ischia. Dalla villa scendono ripidi pendii per almeno due verste[1], in qualche punto interrotti da sporgenze abbastanza larghe, dove si annidano bianche casette, ora sparse, ora raggruppate; e poi giù fino all’orizzonte si estende il mare Mediterraneo, davanti a noi verso ovest e a sinistra verso sud; soltanto verso destra lo cingono le pittoresche coste dell’Italia, con le loro ininterrotte catene montuose a perdita d’occhio. A circa cento passi dalla nostra villa su un prato verde si innalza una roccia compatta a forma di tetto, come se ne vedono sulle izbe[2] di legno russe.

Non è molto ripida e in cima ha una cresta, e dalla parte opposta scende con un dolce pendio verso una gola oscura. Dopo pranzo alle sei, prima della passeggiata serale, andavo spesso fino a questa roccia, salivo sulla sommità e mi sedevo là, con la gambe abbassate sul lungo declivio rivolto verso il mare a occidente, e leggevo il mio libro, senza rivolgere mai la minima attenzione al magnifico panorama che si dispiegava davanti a me. Una volta, distogliendo gli occhi dal libro, fui sorpreso da una visione straordinaria e improvvisa: era come se mi avesse colpito una striscia fiammeggiante, che si protendeva per tutto il mare verso di me dal globo scarlatto e fiammeggiante, che si era fermato sul limite del lontano orizzonte. Più questa striscia diventava rossa, più la superficie del mare sembrava nera e cupa. Quel giorno, quando tornai a casa, rimasi a lungo sotto quell’impressione straordinaria che mi aveva assalito e scrissi nei miei appunti di viaggio che quel giorno avevo visto un tramonto color del sangue. Risvegliatomi così dall’impassibile indifferenza verso la natura, mi misi d’impegno ad osservare e ad ammirare dalla mia roccia come ogni giorno il sole tramontava in un modo diverso, nuovo, riversando nei modi più bizzarri i suoi raggi iridescenti sul profilo del panorama e facendolo così variare all’infinito. <…>

Negli ultimi giorni di aprile 1840 lasciammo Napoli per trasferirci sull’isola di Ischia. Ma prima il conte e la sua famiglia si diressero a Salerno, attraversando la pittoresca valle di Cava, per visitare il famoso tempio di Paestum, e mi lasciarono andare per due settimane a Roma, affinché potessi, anche se frettolosamente, conoscere i suoi famosi monumenti, che mi erano passati davanti come un fantastico sogno quando ci eravamo fermati brevemente là durante il viaggio verso Napoli, dove volevamo trovare riposo e tranquillità dopo un lungo peregrinare. A questo viaggio tenevo molto: mi era particolarmente necessario perché l’inverno successivo avevamo progettato di andare non a Roma, ma in qualche posto vicino a Nizza o nel sud della Francia..

Il figlio maggiore del conte, Aleksandr Sergeevič[3], alla fine di aprile partì direttamente da Napoli per tornare in Russia ed entrare nel servizio militare.

Alla metà di maggio prendemmo alloggio a Ischia, in una villa modesta e isolata, che si chiamava Panella e somigliava a una fattoria con un frutteto e una vigna. Elizaveta Sergeevna e Pavel Sergeevič dovevano fare i bagni curativi con la famose acque termali di Casamicciola, la cittadina che fu poi completamente distrutta dal terremoto del 1883. Chissà se la nostra cara Panella si è salvata? Essa distava soltanto a venti minuti a piedi da Casamicciola. Tutte e due si trovavano sul più alto ripiano, largo e pianeggiante, della montagna che aveva dato origine all’isola di Ischia. Più in alto della spianata dove noi avevamo trovato asilo non vi era più nessuna abitazione. A circa una versta da Panella si elevava alto verso il cielo un cono roccioso o, più esattamente, soltanto la metà di esso: la sommità del monte Epomeo, vomitante fuoco. In tempi immemorabili, durante l’ultima eruzione di questo vulcano, per la pressione del materiale infuocato nel suo cratere il cono scoppiò e l’altra metà si disintegrò e si ridusse in schegge, che si riversarono giù da quella parte sulla base del pendio della montagna.

A Panella facevamo una vita di campagna: pranzavamo alle due e cenavamo alle dieci. Ecco come si svolgeva la mia giornata. Mi alzavo prima delle sei e bevevo l’acqua minerale di Castiglione, che mi aveva prescritto il nostro medico francese (i medici italiani allora erano poco raccomandabili). Questa acqua si doveva prendere non a Casamicciola, ma molto più giù, vicino al mare, da una sorgente che si gettava nelle sue onde e sgorgava da una fessura in una roccia scoscesa. Ogni mattina presto una ragazza isolana di circa quindici anni andava a prendere laggiù la mia provvista di acqua minerale e me la portava in un’anfora di argilla, tenendola sulla testa. Dalla villa scendeva a zig zag una strada sassosa tracciata lungo il ripido pendio della montagna, coperto di vigneti. Quando io uscivo di buon’ora a bere l’acqua minerale il sole mattutino non era ancora sorto dalla sommità del monte Epomeo; perciò io passeggiavo per i sentieri ancora in ombra, e laggiù davanti a me, sotto il cielo blu si stendeva, calmo e delicato, un mare altrettanto blu nello splendore dei raggi del sole; a destra, come nuvole opalescenti al limitare dell’orizzonte, si estendevano in lontananza a perdita d’occhio le coste montuose dell’Italia. Faceva fresco nel mio rifugio ombroso. Le stradine erano sdrucciolevoli, come se qualcuno le avesse bagnate intenzionalmente; dalle larghe foglie delle viti cadevano su di me grosse gocce d’acqua fresca. Dapprima pensavo che di regola a Ischia ogni notte prima dell’alba piovesse, ma poi capii che si trattava di una rugiada particolarmente abbondante, grazie alla quale d’estate si mantiene la primaverile freschezza dell’erba, dei fiori e del fogliame.

Verso le otto tornavo dalla vigna, bevevo il caffè e dalle nove alle dodici, come a Napoli, facevo lezione ai miei alunni e alle mie alunne. Prima di pranzo Elizaveta Sergeevna e Pavel Sergeevič andavano a Casamicciola a fare i bagni termali e io per tutto il resto della giornata, fino a notte, ero libero dai miei obblighi di insegnante. A mezzogiorno uscivo sempre dalla mia stanza con un libro e andavo nel giardino che si trovava tra la villa e il ripido pendio di quel vigneto. Qui rimanevo fino all’ora di pranzo, seduto su una panchina sotto l’ombra del denso fogliame di un noce, e leggevo il mio libro nella frescura della brezza che ogni giorno si levava a quell’ora e cessava verso le due, quando andavo a casa per il pranzo. Poi, fino alle cinque, cominciava una calura insopportabile, soffocante: fuori l’aria era ardente come in un forno; nelle stanze c’era afa come in un bagno turco. In queste ore io rimanevo in camera mia, con la porta della terrazza chiusa, perché non entrasse l’aria calda. Per quanto noi uomini a Ischia portassimo vestiti leggeri, in queste ore non riuscivo a sopportarli. Indossavo dei pantaloni bianchi di tela e una camicia azzurra di lino, senza bretelle e panciotto, perché mi avrebbero dato fastidio; ai piedi avevo delle scarpe leggere, in testa un cappello di paglia a tese larghe, e non intrecciata, ma naturale e leggermente rigonfia, perché così era più leggera, faceva passare l’aria e riparava meglio dai raggi del sole meridionale. La corrente d’aria tra le finestre non serviva; non si poteva stare seduti qualche minuto nello stesso posto, e nemmeno sdraiarsi sul divano; si era sopraffatti dalla fiacchezza. Per rinfrescare almeno un po’ la mia camera ogni tanto bagnavo il pavimento con l’acqua del lavamano, ma anche questo non serviva, perché il pavimento subito si asciugava, come nel bagno turco la pietra su cui viene versata l’acqua.

Molto meglio mi difendeva dal caldo un mezzo, che si rivelò il più efficace: la lettura, e soprattutto quella che non richiedeva un intenso sforzo intellettuale, ma era sufficientemente interessante da distrarmi dall’atmosfera soffocante che mi circondava e mi distoglieva da essa portandomi con i ricordi in un felice passato o attirandomi nel futuro con complicati sogni. Una lettura del genere era per me la storia della pittura di Kugler[4]. In essa io osservavo e riproducevo con minuziosa nitidezza nella mia immaginazione le descrizioni delle opere pittoriche che avevo visto a Dresda, Norimberga, Monaco, Verona, Mantova, Bologna, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, e di quelle che avrei visto nel viaggio di ritorno nelle stesse città o in altre. Avevo letto da qualche parte che Kant si curava dalla tosse e dal mal di denti immergendosi intensamente nei pensieri filosofici. Io utilizzavo la sua ricetta per rinfrescarmi in quella insopportabile calura.

Verso le cinque, quando il caldo cominciava a diminuire, uscivo a passeggiare. La meta preferita delle mie passeggiate era un folto bosco, che era cresciuto dalla nostra parte del monte Epomeo e ne aveva coperto le ripide pendici più basse. Da lontano questo bosco sembrava fatto di bassi arbusti, ma addentrandosi ci si trovava sotto vecchi alberi alti, con i rami pendenti intrecciati l’uno all’altro; il muschio e altre piante rampicanti rivestivano di una abbondante e spessa copertura i grossi tronchi e i rami secchi, ricadendo verso terra con sottili e lunghi rami a formare come delle ghirlande. Non era facile penetrare in quel folto, specialmente dove il bosco era cresciuto sul ripido. Io prendevo sempre quella direzione con l’intenzione di superare gli ostacoli e raggiungere il punto in cui, alla base del cono roccioso, cessa ogni vegetazione. Vagando ai margini del bosco notavo qua e là gli avvallamenti delle radure attraverso le quali si apriva la strada verso i crepacci. A giudicare dai massi e dalle selci disseminati sul suo corso indovinavo che d’inverno, quando piove forte, si riversano dall’alto torrenti impetuosi. Proprio qui trovai la desiderata libertà per le mie passeggiate e insieme il cammino diretto verso quei luoghi reconditi che tanto mi attiravano. Più salivo dal pianoro lungo la gola, più essa si stringeva e più alte diventavano le sue pareti, da cui pendevano i rami degli arbusti intrecciati strettamente con le piante rampicanti; poi il mio cammino era interrotto da ripidi burroni, su cui bisognava arrampicarsi; perciò io, stanco di lottare contro gli ostacoli, tornavo sui miei passi. A quel tempo amavo vagare in luoghi impervi e arrampicarmi sulle pareti rocciose, superando ogni difficoltà, e se in seguito rinunciai a raggiungere il mio scopo fu per un motivo completamente diverso.

A Ischia, dovunque si vada, si incontra un serpente, a volte due o tre, uno dopo l’altro, specialmente quando fa molto caldo, quando escono a riscaldarsi sui bassi muretti di pietra che separano le strade dai campi e dai vigneti. Perciò mi abituai a passare accanto ai serpenti senza nessun timore, stando attento a non calpestarne la coda. Anche nelle gole del monte Epomeo vidi dei serpenti, che apparivano sempre e soltanto sui pendii rocciosi, e non lungo la strada nel fondo della gola, e di solito uno alla volta. Per distrarmi a volte tenevo il conto di quanti ne incontravo. Una volta mi addentrai in una gola dove in un minuto ne contai una decina, e più camminavo più il loro numero aumentava, cosicché alla fine intorno a me ambedue i pendii formicolavano di teste di serpente con le code attorcigliate; mi sembrava di vederle anche sui sassi sui quali stavo camminando. Non riuscii a dominare lo spavento e tornai indietro di corsa. Da quella volta smisi di addentrarmi negli anfratti e nel folto del bosco epomeo. Io ero coraggioso e ardito nell’immaginare imprese audaci, ma come vedete mi intimidivo e mi impaurivo quando si trattava di realizzarle.

Prima del tramonto tornavo alla nostra villa e con un libro in mano mi sedevo sulla cresta della roccia ad ammirare le bellezze della natura e ad osservare la varietà infinita delle sue meraviglie, come ho avuto già occasione di dirvi. Nel 1833 il professore dell’università di Firenze (Istituto di Studi Superiori) e redattore della Rivista Europea Angelo De Gubernatis[5] decise di pubblicare un Album Internazionale, composto di fotografie con gli autografi di scrittori e di scienziati, a favore delle famiglie povere di Casamicciola colpite dal terremoto. Egli si rivolse anche a me pregandomi di dare il mio contributo all’edizione. Ecco il testo del mio autografo:

Ischia mi ha lasciato per tutta la vita i più cari e luminosi ricordi perché da giovane ho trascorso l’estate del 1840 a Panella, ai piedi dell’Epomeo, e là ho capito per la prima volta la bellezza della natura, e da allora l’ho amata”.

Nei giorni festivi programmavo passeggiate in luoghi lontani e, dopo aver preso il caffè, uscivo di casa prima di pranzo, sempre con un libro in mano. Mi ricordo specialmente le passeggiate sulla riva del mare dalle parti di Forio, tra rocce e declivi sabbiosi. Per riposarmi al fresco mi sedevo su un grosso scoglio bagnato a tratti dalle onde del mare, all’ombra di una ripida roccia. Era bello stare lì a leggere e ogni tanto guardare le lontane rive montuose dell’Italia, che si stendevano a destra di Ischia, vedere come i loro contorni sfumavano e svanivano nel vapore trasparente dei raggi ardenti del sole alto di mezzogiorno, dal quale ancora mi riparava un’alta roccia. A volte si alzava una fresca brezza e si infrangeva sul mio scoglio un’onda che mi bagnava con i suoi spruzzi salati.

Nei luoghi più lontani andavo in groppa un asino e in compagnia del suo conduttore. Voglio raccontarvi una di queste gite, che mi ricordo con particolare chiarezza. A sinistra di Panella si protende verso sud ovest un promontorio, formato da enormi rocce a strapiombo sul mare. Da questa riva alta e scoscesa si distacca uno scoglio, che si congiunge ad essa con una specie di ponticello, una striscia di pietra lunga circa dieci sažen[6] e larga non più di due aršin[7].

Su questa roccia vi è, allo stesso livello della riva, un piccolo spiazzo coperto di erba e di radi arbusti. Arrivare fin là percorrendo quel passaggio viene considerato a Ischia un’impresa da capogiro. Si narra che un imperatore lo avesse percorso a cavallo, perciò il promontorio viene chiamato dagli isolani Punta d’Imperatore. Anche a me venne il desiderio di mettere alla prova il mio coraggio, ma non a cavallo, bensì a piedi. Scesi dall’asino e arrivai felicemente sullo spiazzo; passeggiai per alcuni minuti, raccolsi due o tre fiorellini per ricordo e sedetti un po’ su una pietra, con il viso rivolto verso l’Africa, ammirando l’infinita distesa del mare, che sotto di me si infrangeva sulla roccia. Ma bisognava ritornare.

Soltanto il pensiero mi metteva in ansia e quando mi avvicinai al passaggio, che ora mi sembrava due volte più lungo e molto più stretto, fui preso dal timore e poi dal terrore e dall’angoscia: e se mi fosse venuto un capogiro, se le ginocchia mi fossero mancate? Se fossi inciampato? O se un’improvvisa raffica di vento mi avesse sbilanciato, o se l’asino si fosse messo a ragliare forte e mi avesse spaventato? Chiamare in aiuto il conduttore non sarebbe servito a nulla: il passaggio era troppo stretto per due persone e andare uno davanti e l’altro dietro non sarebbe servito a niente. Lui non avrebbe potuto tenermi abbastanza forte con le mani e tutti e due saremmo volati giù nel precipizio. Tutto questo subbuglio di paure e agitazione, che ora analizzo dettagliatamente, balenò in un istante nella mia mente, e nello stesso istante l’istinto di sopravvivenza prese il sopravvento, con l’incrollabile decisione di vincere quell’incubo, di sfuggire al pericolo che incombeva su di me. Benché le gambe mi tremassero e l’agitazione si diffondesse in tutto il corpo, mi inoltrai sulla striscia che tanto mi aveva spaventato e camminai piano, tenendomi nel mezzo, finché da ambedue le parti non ci fu abbastanza spazio da impedirmi di cadere giù, se per caso mi fossi inclinato a destra o a sinistra; e quando arrivai al punto più stretto, che si estendeva per circa tre sažen, per mettermi al riparo da imprevisti fatali non trovai di meglio che sdraiarmi e strisciare per lo stretto passaggio, e così, lentamente e fermandomi ogni tanto, arrivai felicemente dall’altra parte. Il conduttore rise molto della mia trovata e disse che avrebbe suggerito di seguire il mio esempio anche ad altri timorosi cercatori di avventure.

Durante i due mesi del nostro soggiorno a Ischia io provai un senso di completa solitudine in un vasto spazio, vagando per i ripidi pendii e i declivi della costa. Raramente incontravo qualcuno degli abitanti del luogo nei loro costumi campagnoli, ma in quei due mesi non mi capitò mai di vedere un solo straniero o qualcuno che, come me, passeggiasse per passare il tempo, e non per necessità. A quel tempo Ischia era un luogo deserto e non mi sarebbe mai potuto venire in mente che la misera e sciatta Casamicciola si sarebbe un giorno trasformata in un luogo di cura tra i più eleganti, con splendidi alberghi al posto delle vecchie caserme, con lussuose e comode strutture al posto dei bagni commerciali di prima, con fresche gallerie di marmo, persino con un teatro, nel quale si sarebbero ritrovati centinaia di spettatori dell’alta società provenienti da tutte le parti del mondo. Non so come sia diventata Casamicciola ora, dopo la distruzione che l’ha ridotta in macerie nel terremoto del 1883.

La solitudine, la quiete e il silenzio nei miei vagabondaggi per le montagne e le valli di Ischia non mi annoiavano; anzi, sentivo dentro di me una calma rivitalizzante e benefica, che favoriva la concentrazione, dopo l’insopportabile trambusto, fracasso e vocio da cui ero sopraffatto nelle vie e nelle piazze della popolosa Napoli. Nel mio romitaggio non mi sentivo solo: con me c’era sempre come compagno di viaggio Dante in persona, con la sua Divina Commedia.

Già a Napoli avevo cominciato a leggere questo dottissimo poema e da allora esso divenne per molti anni il mio livre de chevet preferito. A Napoli avevo letto l’Inferno; ora a Ischia salii con Dante i gradini della grande montagna del Purgatorio fino alla sua sommità, con il Paradiso Terrestre, che a volte, nei momenti felici delle fantasie passeggere, mi appariva sulla cime dell’Epomeo.

Il punto di partenza delle mia occupazioni letterarie a Panella e il centro a cui portavano era Dante e la sua Divina Commedia; ma intanto io mettevo insieme i vari particolari che avevo raccolto su questo argomento in tutte le città italiane in cui ci eravamo fermati lungo il viaggio. A Verona era vissuto Dante, scacciato da Firenze, presso il suo protettore Cangrande; a Padova, nella cappella degli Scrovegni (nell’Arena), Avevo osservato attentamente i famosi affreschi del contemporaneo e amico di Dante, Giotto, che dipinse il Giudizio Universale e le figure simboliche delle virtù e dei vizi riferendosi a vari particolari della Divina Commedia. A Firenze avevo visitato il battistero in cui Dante fu battezzato e la casa in cui aveva come vicina Beatrice, che rese eterna cantandola in versi e in prosa; ovviamente, non avevo mancato di sedermi sulla pietra preferita dal poeta e avevo ammirato instancabilmente la magnifica chiesa di Santa Maria del Fiore, con il grandioso campanile, costruito e decorato con bassorilievi dallo stesso Giotto. Le visioni della vita ultraterrena, con il fascino misterioso dei simboli mistici ispirati dalla Divina Commedia mi avevano alitato su di me dalle pareti nella chiesa di Santa Maria Novella e nel monastero domenicano adiacente, affrescate dagli alunni di Giotto. Questa è la stessa chiesa in cui, al tempo della terribile peste che imperversò in Italia nel XIV secolo, si riunirono gli allegri cavalieri e dame del Decamerone di Boccaccio e decisero di allontanarsi insieme dalla città contagiata e di trasferirsi in una villa isolata. Michelangelo amava particolarmente questa chiesa e la chiamava la sua fidanzata. A Bologna rimasi più di una volta sotto le due torri pendenti l’una verso l’altra, chiamate torre degli Asinelli e Garisenda, a cui Dante paragona il gigante che nell’inferno si china su di lui per sollevarlo in alto.

Dante e Giotto mi aprirono la strada per conoscere l’originario stile ingenuo dei maestri italiani del XIV e XV secolo. Questa fu il tema principale e peculiare di cui mi occupai sull’isola di Ischia. Il libro di Kugler, di cui ho parlato spesso nelle mie memorie, fu la mia migliore e unica guida. Questo studioso, da quello che so, fu il primo che nella sua storia della pittura rivolse la dovuta attenzione e il più vivo interesse ai primi maestri italiani, che precedettero la fioritura di Leonardo da Vinci, di Michelangelo e di Raffaello.

Inoltre il conte Sergej Grigor’evič mi indicò e mi diede due antiche monografie illustrate che corrispondevano pienamente ai miei desideri e scopi. Erano descrizioni particolareggiate della chiesa conventuale di San Francesco ad Assisi e del duomo di Orvieto. Nel primo libro io potei conoscere i trionfi della Castità, dell’Obbedienza e della Povertà, dipinti da Giotto sulle volte della chiesa sulla tomba di San Francesco, conformemente ai versi che Dante scrisse su questo santo nella Divina Commedia. Nel secondo conobbi gli affreschi che Luca Signorelli, pittore del XV secolo, dipinse in una delle cappelle del duomo di Orvieto, prendendo a prestito piccoli soggetti da vari episodi del poema di Dante e rappresentando in grandi dimensioni la resurrezione dei morti nel Giudizio Universale, con tanta ispirazione religiosa e con una partecipazione così sentita alle gioie e alle sofferenze degli uomini, ai loro trionfi e alla loro disperazione, da superare in profondità e sincerità lo stesso Michelangelo nel suo Giudizio Universale della Cappella Sistina.

Con questo termino le mie memorie del soggiorno a Ischia. Da qui dovemmo trasferirci sulle rive sorrentine, ma senza il conte Sergej Grigor’evič, che da Ischia partì per Mosca, lasciandoci all’estero per tutto l’anno seguente. Prima della sua partenza si decise che avremmo trascorso l’inverno seguente a Roma e questa fu per me una grande gioia.


[1] Versta – misura russa per la distanza, corrispondente a 1066 m.

[2] Izba – tipica casa rurale russa.

[3] Il figlio del conte Sergej Grigor’evič Stroganov (1794-1882), governatore di Mosca e mecenate, capo della famiglia, presso la quale il futuro accademico lavoravo come un tutore. Più giù sono nominati gli altri figli del conte, Elizaveta e Pavel.

[4] Franz Theodor Kugler (1808-1858), storico dell'arte tedesco. Buslaev leggeva il suo Handbuch der Geschichte der Malerei von Constantin dem Grossen bis auf die neuere Zeit (1837).

[5] Angelo De Gubernatis (1840-1913), scrittorelinguista, orientalista, sposato cona la cugina di Michail Bakunin, Sofia Bezobrazova (Besobrasoff).

[6] Sažen – misura russa per la lunghezza, corrispondente a 2,1336 m.

[7] Aršin – misura russa per la lunghezza, corrispondente a 0,7112 m.