Bellandi nata Girsch, Maddalena

 

 

MAMMONA

 

Ricordi di vita

Io sono la Mammona, mi chiamano così perché sono grassa. Mi chiamano così non solo le mie figliole ma tutti i loro amici che io considero tutti miei figlioli.

Io sono nata in un Paese lontano, in un Paese della Russia zarista che si chiama Estonia. La mia città allora si chiamava Reval ed era un importante porto, soprattutto militare.

Sono nata secondo il vecchio calendario russo il 16 ottobre, che corrisponde nel calendario gregoriano al 29 ottobre dell’anno 1909.

 

L’infanzia in Estonia

 

Quello che racconto sono per ora i miei ricordi d’infanzia. Qualcuno è di quelli che mi hanno raccontato perché ero troppo piccina per ricordare. Per esempio, io ero una bambina molto precoce soprattutto nel parlare, ma anche robusta. Non volevo stare nel box, con la disperazione della mia balia, una ragazza estone, che si chiamava Leni. Naturalmente le prime parole che io pronunciai erano in lingua estone perché questa Leni parlava in estone con me. Mi hanno raccontato che ogni tanto la balia mi lasciava tranquilla nel box e andava a prendere una tazza di tè con le altre cameriere lasciando aperta la porta. Dopo un po’ io avevo scavalcato il box e a quattro zampe le correvo dietro. Allora Leni esclamava sgomenta: “laps ronib ijelle” che in estone vuol dire “la bambina arranca di nuovo” e dicono che queste furono le prime parole che ho pronunciato, infatti, inseguendo a quattro zampe la mia balia, gridavo: “laps ronib ijelle”.

Il primo ricordo, che è veramente mio, è di una estate in un grande giardino. Avevo accanto a me una grande ombra che doveva essere la mia bambinaia e si camminava su un piccolo sentiero umido sul quale saltellavano delle piccole ranocchiette . La mia bambinaia prendeva queste ranocchie e me le metteva in mano. Io dall’entusiasmo le strizzavo e purtroppo usciva un succo giallo che poi mi sgomentava e così le lasciavo andare.

Di un anno dopo ho già dei ricordi più chiari.

So che la mia famiglia prendeva una villetta in affitto sulla baia di fronte alla nostra città. Aveva le finestre sul mare e in lontananza si vedevano le torri, i campanili di Reval. Una volta d’estate mentre giocavo con la nostra governante e con il mio fratellino che aveva circa due anni più di me, si sentirono dei gran colpi di cannone. Corremmo alle finestre e vedemmo una grande processione di navi da guerra tutte imbandierate con il gran pavese che entravano nel porto tutte in fila e i colpi di cannone erano “le salve” di benvenuto. Dopo ho saputo che quello era l’arrivo del Presidente della Francia di allora, Poin Carré, in visita ufficiale allo Zar e così seppi che era l’anno 1913.

La prima casa che ricordo era al centro della città; era un grande appartamento sulla via, che si chiamava via Lunga, che attraversava il centro antico da una porta antica all’altra e la più vicina a noi era la Porta al Mare, ancora intatta, del 1200 anno in cui hanno costruito le mura della città vecchia.

Di fronte alla casa dove abitavamo c’era un giardinetto triangolare perché dalla nostra strada se ne distaccava un’altra che andava un po’ in discesa verso il porto. All’angolo di questo piccolo giardinetto c’era un piccolo altare ortodosso con un santo tutto chiuso nel vetro. In questa strada c’era parecchio traffico e io e mio fratello con la nostra governante stavamo spesso sulla strada a guardare il traffico.

Quasi di fronte c’era un bel portone di un bell’edificio dove c’era il casinò militare, la mensa dei militari. Vedevo entrare ufficiali ed elegantissime signore e allora sognavo sempre di diventare anch’io, un giorno, una “offizerskaia” o dama, ovvero una signora degli ufficiali. Ad una finestra della mia camera era attaccato, all’esterno, uno specchio voltato verso il marciapiede così che si poteva vedere chi passava, senza essere visti.

L’ordinamento della nostra casa era così: sulla strada c’erano tre stanze.

Prima la nostra dei bambini che era molto grande, divisa in due parti; in fondo, dietro ad un paravento, c’erano tre letti: il mio, quello del mio fratellino e in mezzo quello della governante, invece verso la finestra c’era un grande tavolo con delle sedie ed un tavolino piccolo per i bambini con delle seggiole piccole perché io allora avevo circa cinque anni e mio fratello sette. La stanza accanto era lo studio di mio padre; aveva una finestra sola ed era di passaggio, se noi volevamo andare nelle altre stanze. Poi veniva il salone grande con altre due finestre sulla strada e qui aspettavano, in certe ore, i clienti di mio padre. Poi si voltava all’interno e c’era un corridoio d’entrata e due stanzette piccole dove stavano i sostituti di mio padre, che era avvocato. Poi veniva il cosiddetto boudoir di mia mamma che era però diviso in due parti: dietro il grande divano, con alzata di legno bianco, c’era la camera da letto dei miei genitori (non si vedeva perché era tutta nascosta).

Dal boudoir si entrava di nuovo, a destra, nella stanza da pranzo, molto grande, e mi ricordo che nella porta a doppie ante che passava da una stanza all’altra, ogni tanto si appendeva un’altalena per noi bambini; un’altalena fatta di legno di bambù dove ci si sedeva come in una gabbia e si ballonzolava fra una stanza e l’altra. Nella stanza da pranzo naturalmente c’erano tutti i mobili grandi e pesanti e poi si passava in un corridoio lungo dove c’erano da una parte tre letti uno dietro l’altro tutti in fila dove dormivano le due cameriere e la cuoca e questo corridoio finiva in cucina che era in fondo. Le finestre davano tutte su un grandissimo cortile dal quale si usciva nella strada dietro alla nostra che si chiamava via Larga (la nostra era la via Lunga ed era parallela alla via Larga). Da questo corridoio, nella direzione opposta, si andava in un piccolo corridoio lungo dove c’era il gabinetto e, accanto, una stanza da bagno, tutte due senza finestre. E da questo corridoio si sbucava di nuovo in camera nostra, dei bambini. Era come tutto un giro.

Noi bambini non si faceva mai il bagno nella vasca da bagno, non si sa perché, ma una volta o due alla settimana, non ricordo più, in camera nostra portavano una vasca di zinco, si riempiva d’acqua calda e io e mio fratello facevamo il bagno insieme in quella vasca. Una volta finito il bagno le donne la portavano via e la svuotavano; per lavarci invece tutti i giorni avevamo un piccolo lavandino con una brocca e la catinella e ci lavavamo tutte le mattine e tutte le sere in camera nostra. Si stava parecchio in camera nostra.

La mattina avevamo la governante tedesca che si chiamava Matilde e si poteva scorrazzare per tutta la casa.

La mia balia Leni era rimasta da noi come cameriera.

Mi voleva molto bene e naturalmente voleva il meglio per me. Così quando mi rincontrava qualche volta di passaggio nella stanza da pranzo e il tavolo era apparecchiato lei prendeva un coltello, staccava un bel pezzo di burro dal tavolo e me lo ficcava in bocca. Questo a me piaceva moltissimo e da quello probabilmente è nata in me la predilezione dei cibi fatti col burro.

Nel pomeriggio, quando mio padre riceveva i clienti si doveva stare sempre in camera e di pomeriggio avevamo una maestra russa la quale ci insegnava questa lingua così prima ancora di aver incominciato a scrivere e a leggere noi si sapeva parlare in Estone tedesco e russo come in genere tutti i bambini del nostro paese perché c’era sempre gente che doveva parlare in queste tre lingue. Così noi siamo nati con tre lingue. Mi hanno però insegnato anche a scrivere molto presto perché mio fratello che aveva quasi due anni più di me ha incominciato ad imparare a leggere e a scrivere a sette anni. Io ne avevo appena cinque e così incominciai ad imparare insieme a lui.

Si stava nel cosiddetto boudoir della mamma e io, siccome ero ancora piccina, avevo un tavolino basso da bambini con una seggiolina mentre mio fratello stava al tavolo seduto per bene.

Si cominciò soprattutto prima a scrivere in caratteri gotici perché a quel tempo il tedesco si scriveva in gotico. Io per diversi anni ho continuato a scrivere il tedesco in gotico poi, quando avevo imparato anche il francese e l’inglese e la scrittura latina, a scuola fui la prima che cambiò la scrittura dal gotico al latino anche per il tedesco.

A quei tempi allora di mattina imparavamo a scrivere e a leggere in tedesco, di pomeriggio con la governante o maestra russa si imparava la scrittura cirillica per scrivere e leggere il russo.

Poi l’andamento della casa era così. Alla mattina, come ho detto, si girava per casa e si imparava qualche cosa poi si doveva andare in camera nostra a mangiare perché a pranzo non si andava a tavola mai. Il pranzo era all’una, c’erano sempre degli ospiti e dei parenti con mio padre e mia madre; invece noi niente.

Alla sera invece c’era il gran pranzo alle cinque del pomeriggio come usava a quei tempi nella vecchia Russia. E allora erano ammessi anche i bambini e una delle governanti, quella che stava sempre con noi. Però si stava in fondo al tavolo e non si doveva parlare. Solo se qualcuno si rivolgeva a noi con una domanda si poteva rispondere.

A quei tempi la Russia produceva già parecchio petrolio, perciò i lumi in casa erano tutti a petrolio; la luce elettrica si conosceva poco, veniva installata solo nelle case più nuove.

Nelle strade c’era la luce a gas che veniva accesa tutte le sere da un omino che camminava, da un lampione all’altro, con una lunga stecca e alzava una levetta per accendere il lume.

Poi si usavano in casa anche parecchie candele. Per esempio mio padre che lavorava molto di notte, sulla sua scrivania aveva sempre due candele perché dicevano che la luce delle lampade a petrolio facesse male agli occhi. In ogni modo, all’imbrunire, tutte le lampade a petrolio venivano accese in tutte le stanze e si poteva girare tranquillamente tutta la casa senza inciampare.

Siccome la mia città era situata al 60° parallelo nord, c’era molta differenza di luminosità fra estate e inverno. D’inverno le lampade erano accese quasi tutto il giorno. Solo verso la primavera, a febbraio/marzo, quando le giornate si allungavano, si spegneva un po’ la luce di giorno e soprattutto quando c’erano giornate di sole; invece d’estate non c’era bisogno d’illuminare la casa perché il sole andava via dopo le dieci di sera e non diventava mai completamente buio di notte.

Così era diversa anche la vita della gente. D’inverno si stava molto in casa e si facevano, al massimo, fare ai bambini delle passeggiate nelle ore più luminose verso le undici, dodici del mattino.

In casa faceva molto caldo perché c’erano delle stufe enormi che scaldavano due stanze alla volta perché erano costruite nel muro: c’era uno sportello da una parte e dall’altra c’era solo la parete calda e si poteva stare in casa anche coi vestiti leggeri, tant’è vero che ho delle fotografie dove sono in calzini corti con dei vestiti di pizzi a battista che portavo anche tutto l’inverno. Per uscire bisognava coprirsi di più; allora ci si metteva delle ghette che erano come una specie di collant di lana che coprivano dai piedi fino alla vita, si infilavano sotto il vestito, poi ci si metteva un cappotto o una piccola pelliccia. La pelliccia si teneva in genere all’interno perché teneva più caldo. Poi dopo si metteva in testa generalmente un cappuccio anche quello in genere di pelliccia e ai piedi delle soprascarpe o di gomma o di feltro foderate anche quelle di pelliccia. Da bambina piccola, mi ricordo che mi mettevano anche un velo sulla faccia per evitare che il freddo mi facesse male al naso.

A passeggio io, mio fratello e la governante si andava in genere nei giardini che si trovavano non lontano da noi sulle mura della città; di là si vedeva una bella vista sul porto da una parte e indietro sulla fortezza che era al centro della mia città Reval, che ora si chiama Tallin ed è situata su un golfo molto bello fatto come un arco di luna chiuso da due piccole isole. Era importante come porto proprio perché d’inverno la baia gelava piuttosto uniformemente e il canale che veniva tagliato dai rompighiaccio si poteva mantenere facilmente aperto perché non c’era grande spostamento di ghiacci. Per quello era un porto importante non solo civile ma anche militare e il governo zarista ci manteneva una grande parte della sua marina militare. Era molto più importante il nostro porto di quello di Kronstadt che era più vicino a San Pietroburgo.

La parte più antica della città era la collina che si trovava in mezzo al centro e che si chiamava il Duomo. Il Duomo era tutta la collina e in cima c’era anche la chiesa più importante che si chiamava la chiesa del Duomo. Poi c’era anche il castello grande e poi nella piazza avevano costruito alla fine dell’800 l’unica chiesa ortodossa per la popolazione dell’Estonia che era protestante, perché l’Estonia era appartenuta per tanti secoli alla Svezia protestante. L’Estonia era stata una provincia svedese insieme alla Finlandia che è di fronte all’Estonia sulla stessa baia; per quello anche ci sono molte popolazioni delle isole che parlano ancora lo svedese, piuttosto in un dialetto antico, e avevano dei privilegi di pesca e di vita che erano stati riconosciuti dallo zar quando Pietro il Grande aveva conquistato tutta la zona durante la guerra con Carlo XII di Svezia e la nostra città era stata ceduta ai russi nel 1710.

Al momento della conquista di Pietro I le province baltiche erano tre e si chiamavano Estonia Livonia e Kurlandia ed erano state per tanto tempo proprio province svedesi. Quando Pietro I conquistò questi paesi capì subito l’importanza del porto e fece costruire un palazzo vicino alla città. Questo palazzo si chiamava Katerinental che era per sua moglie Caterina. Esiste ancora questo palazzo che ora è un museo in un enorme parco molto curato e sempre fiorito. E questo palazzo è dei primi anni del 700. Prima di aver finito la costruzione del palazzo, Pietro il Grande con sua moglie Caterina venivano spesso in città e per loro avevano costruito una piccola casetta che noi tutti chiamavamo la casetta di Pietro ed è mantenuta anche quella come museo. Aveva solo due stanze: una stanza con un tavolo con delle sedie, come soggiorno, e la camera da letto con un grande letto enorme chiuso da cortine di seta verde e accanto un lettino piccolo per l’aiutante. L’aiutante di campo dell’Imperatore doveva dormire sempre nella sua stessa stanza mentre nel grande letto, racchiuso dalle cortine, dormiva lo Zar con la moglie.

Quando io ero bambina si andava a visitare la casetta di Pietro e ricordo di aver visto anche le pantofoline di seta verde della zarina Caterina. Per arrivare a Katerinental dove spesso noi bambini si andava a passeggiare c’era un tram tirato dai cavalli ed era molto divertente per noi andare con questo tram. Si saliva in una piazza che si chiamava il mercato russo e si cominciava a viaggiare con questo tram con un cavallo lungo la strada di Narva. A un certo punto questa strada aveva una leggera salita; allora il tram si fermava e si attaccava un secondo cavallo perché in quel punto uno solo non ce l’avrebbe fatta a portare tutto il tram; allora con due cavalli si saliva un po’ più in alto e dopo si fermava di nuovo e veniva distaccato il secondo cavallo perché dopo, in discesa, bastava uno.

Noi andavamo a passeggio in questo parco su una bellissima strada, cioè era una passeggiata lungo il mare. A un certo punto c’era un monumento che si chiamava Russalka che vuol dire in russo “sirena” ed era un memoriale per una nave a vela che, a suo tempo, era naufragata proprio davanti alla baia della città e in memoria dei marinai morti in quel naufragio avevano fatto questo monumento in cima al quale c’era la figura di una sirena.

Nella casa di via Lunga io ho abitato fino a che avevo cinque anni e mezzo. Poi si cambiò casa e si andò ancora più in centro in una casa molto grande, un appartamento enorme molto bello dove c’era anche la luce elettrica, ma questo lo descriverò dopo.

Nel 1914 quando scoppiò la guerra con la Germania mi ricordo che fecero una specie di oscuramento e bisognava tenere le finestre senza tende per non far vedere la luce fuori. E allora appena si accendevano le lampade a petrolio si tiravano tutte le tende delle finestre perché nei paesi del nord non esistono persiane o imposte; si avevano soltanto delle tende piuttosto pesanti, doppie magari che oscuravano abbastanza bene, non completamente per non far entrare la luce dentro d’estate e, in questa occasione, per permettere l’oscuramento. A noi bambini si diceva: “Non scostate le tende se no le guardie di fuori vi sparano nella finestra.” Allora avevamo una grande paura di avvicinarci alle finestre perché sapevamo che c’erano delle pattuglie che giravano per le strade per vedere che non ci fossero finestre illuminate. Questo proprio perché come avevo già detto la nostra città era molto importante militarmente, dalla parte del mare.

 

 

 

La famiglia

 

Ora voglio raccontarvi un po’ delle persone della mia famiglia.

 

Comincerò dal mio fratellino; lui come ho detto aveva due anni più di me eravamo molto uniti, avevamo le stesse idee, gli stessi giochi come se fossimo quasi gemelli. Lui però era di salute molto precaria, ogni tanto gli prendevano delle grandi febbrate e si pensava che fosse una malattia dei polmoni. C’era la paura sempre della tubercolosi, però tutti i medici che venivano lo curavano un po’ come una malattia polmonare però i polmoni erano sempre buoni. Con lui siamo sempre stati insieme ad imparare in casa e non siamo stati a scuola. Quando era piccolo, per un anno, lo mandavano all’asilo e faceva dei lavori molto belli di intreccio con della carta colorata.

Durante la guerra contro la Germania, le scuole tedesche che erano nella mia città, quelle più eleganti, vennero chiuse però esistevano dei circoli privati presso signore, professoresse, maestre che riunivano un gruppo di bambini e facevano scuola sempre in tedesco, allora i miei genitori inserirono me e mio fratello che si chiamava “Jojò”, George come alla francese, e, nel circolo di una signora con altri sette bambini, lui era l’unico maschio; le altre erano tutte circa della mia età e una sola era più grande.

Noi si fece così la terza elementare che allora da noi era l’ultima perché non c’erano più di tre classi elementari, dopo si andava subito in quello che si chiamava ginnasio.

Era l’inverno del 1918, il primo inverno dopo la Rivoluzione. Noi avevamo la governante russa che ci accompagnava all’appartamento della signora che ci insegnava. Si doveva passare davanti alla Casa del Soldato dove c’erano tutti i Consigli dei militari che si erano formati dopo la Rivoluzione e avevamo molta paura a passare di là, però la nostra governante si metteva a parlare con le guardie e così si passava tranquillamente.

In questo circolo noi abbiamo fatto la terza elementare; in seguito, siccome con la Rivoluzione avevamo perso tutti i soldi che avevamo, i miei genitori ci mandarono alla scuola ufficiale.

Era uno dei pochi anni che si andò veramente a scuola, io in quella femminile e mio fratello in quella maschile.

Alla fine della scuola mio fratello si ammalò molto gravemente e negli anni successivi stavamo molto a casa e, con un altro amico nostro coetaneo, si studiava in casa.

Mio fratello si ammalava molto spesso, aveva la febbre e rimaneva a letto. Dopo molto tempo si scoprì che aveva una forma di tubercolosi nell’intestino e non nei polmoni; sembra che l’avesse presa già da piccolo dalla sua balia, morta di tubercolosi, bevendo il latte infetto. Quando finalmente, durante l’inverno del 1919/1920, egli era tanto ammalato e stava sempre a letto, si decisero di dividerci la notte e nel 1920 essendosi aggravata la sua malattia, andammo per la prima volta all’estero in Germania per portarlo a Berlino dal professor Muller il quale sembra avesse trovato un vaccino contro la tubercolosi, ma mio fratello era così grave che non c’era più niente da fare. Allora mi accompagnarono da una zia che aveva sposato un tedesco del nord della Germania, mentre la mamma con il mio fratellino andarono in una clinica a Monaco di Baviera dove il 27 agosto 1920 mio fratello morì.

Dopo la morte di mio fratello tutta l’attenzione fu rivolta verso di me e ben presto si accorsero che anche io ero stata contagiata dalla tubercolosi. Fui portata anch’io a Berlino dal professor Muller il quale mi fece una cura di trenta iniezioni del siero da lui inventato riuscendo a guarirmi completamente da quella malattia.

 

La mia mamma era di origine francese, era figlia di un professore di francese che si chiamava Henry Siéger.

E’ interessante la storia di mio nonno che non era completamente francese ma era di origine tedesca, era di una famiglia molto antica tedesca, molto nobile, che aveva un castello in Renania vicino ad Aquisgrana che si chiamava Von Zigher (Siéger in francese) che significa “vincitori”.

Questo castello si chiamava così come la famiglia perché, quando gli Unni invasero la Germania ci fu una grande battaglia vicino a questo castello in seguito alla quale gli Unni furono ricacciati e allora i componenti della famiglia che stava in questo castello vennero chiamati i “vincitori”. Il castello aveva anche un altro nome “Burg Zulpich”.

Al tempo del mio trisavolo che abitava nel castello Zulpich c’erano delle idee molto rigide fra i nobili tanto che il mio trisavolo, siccome s’innamorò di una borghese, anche se di alto rango, in quanto era la figlia del borgomastro della città di Aquisgrana, non ebbe il permesso di sposarla. Egli allora la rapì e insieme scapparono in Francia, a Parigi, ed in seguito diventarono francesi anche se di origini tedesche.

Anche mio bisnonno e la moglie vivevano a Parigi e lì nacque mio nonno al tempo della Comune ed egli mi raccontava alcuni fatti dei tempi difficili della Comune e delle guerre a Parigi ed in particolare si ricordava che allora c’era molta fame e la gente mangiava addirittura i grandi topi della Senna, abbrustoliti su una piccola fiamma. In quel periodo suo padre, mio bisnonno, un bel giorno s’innamorò di una ballerina e scappò con lei in America senza dare più notizie alla moglie e al figlio che rimasero poveri ed abbandonati. Allora la famiglia di origine si interessò di nuovo dando loro il necessario per vivere.

Mio nonno fu mandato a studiare in Svizzera e durante le vacanze andava dagli zii al castello. Egli voleva diventare poeta, ma siccome la poesia non rendeva molto, per guadagnare un po’ di soldi, accettò un’offerta dallo Stato Imperiale di Russia il quale nelle scuole governative affidava l’insegnamento della lingua straniera sempre a persone di lingua madre. Così egli accettò un posto come professore di francese in un liceo di Reval. Egli pensava di mettere da parte un po’ di soldi, facendo molta economia, per poi tornare in Francia a fare il poeta o lo scrittore. Non riuscì nei suoi intenti perché gli capitò la stessa cosa dei suoi predecessori e cioè s’innamorò di Adelaide Baou, una signorina francese della città di Nancy, anche lei insegnante di lingua; si sposarono e si fermarono a Reval.

Qui incominciarono a nascere delle bambine: la prima che si chiamava France, la seconda che si chiamava Enriette e che era la mia mamma, la terza che si chiamava Ivonne e la quarta che si chiamava Marcelle che anche i miei figli hanno conosciuto. La povera Adelaide morì di tubercolosi e mio nonno, rimasto solo con quattro piccole bambine, prese in casa una governante anziana, una baronessa Wrangel la quale educò molto bene queste figliole. Egli però era di temperamento focoso e si innamorò ben presto di una signora bellissima, divorziata ma popolana, figlia di uno spazzacamino; la prese in casa con la figlia che aveva avuto dal suo primo marito e che si chiamava Stella. Così aveva cinque figlie. Quando da questa relazione nacque una figlia, Manon, mio nonno si sentì obbligato a sposare questa signora.

Manon, la mia zia più giovane l’ho conosciuta quasi coetanea, aveva soltanto otto anni più di me ed è morta nel 2000 ultranovantenne a Parigi dove viveva.

Così mio nonno dovette lasciare tutti i suoi sogni di poeta e di scrittore e restare per tutta la vita professore di francese per mantenere questa grande famiglia. A lui non piaceva fare l’insegnante anzi diceva sempre :”Se Dio vuol punire qualcuno lo fa diventare insegnante”.

Mia mamma e le sue sorelle erano tutte molto belle però erano povere e non avevano la dote, quindi non si sono sposate molto giovani perché nessuno a quei tempi sposava delle ragazze con pochi soldi.

Per aiutare la famiglia anche le figlie davano lezioni di francese. Mia mamma, Enriette, secondogenita, dava lezioni presso la famiglia dell’avvocato Poska che era amico di un avvocato che si chiamava Martin Hirsch che è mio padre.

Mio padre si innamorò, ricambiato, dell’insegnante di francese che sposò presto anche perché ella non era più tanto giovane; aveva già 26 anni e a quei tempi era considerata zitella. E allora diventò la moglie di un avvocato molto conosciuto. Mio padre era bravissimo come avvocato e non ha mai perso una causa. Lavorava moltissimo anche perché, dopo che si era sposato, voleva farsi un patrimonio con il quale poter vivere tranquillamente di rendita e poi magari trasferirsi da Reval a S.Pietroburgo per assecondare mia mamma che era molto monarchica e amava tutto l’ambiente che girava intorno alla corte. A lei infatti non piaceva vivere in una città di provincia come la nostra; il suo sogno era quello di trasferirsi a S.Pietroburgo e mio padre le aveva promesso di realizzarlo.

 

Mio padre era di una famiglia di intellettuali; per diverse generazioni in famiglia erano stati medici dello Zar.

La storia incominciò al tempo di Nicola I nella prima metà dell’800.

Il primo medico dello Zar della nostra famiglia fu lo zio Karell del quale in casa abbiamo un grande ritratto in uniforme da generale medico. Egli fu il primo estone ammesso all’università di Dorpat in Estonia perché gli estoni erano considerati popolani o addirittura schiavi della gleba; invece Filippo Karell, figlio di una olandese e di un estone, era vissuto in una famiglia di proprietari terrieri , presso la quale sua madre aveva introdotto l’arte di fare il formaggio, e quindi considerato quasi a livello delle persone di alta società. Fu ammesso all’università, diventò medico e fece una bella carriera fino a che diventò medico dello Zar Nicola I e poi dello Zar Alessandro II. Quando Alessandro II fu ammazzato nell’attentato, sua moglie si ritirò in Francia a Nizza che era allora italiana, cioè piemontese, e lo zio la seguì. Nelle memorie di questo zio Filippo fu descritto il passaggio di Nizza dal Regno Piemontese alla Francia ed è stato un fatto molto interessante da leggere; purtroppo questo diario dello zio Filippo è stato disperso durante l’ultima guerra ma io mi ricordo ancora diversi passaggi che avevo letto.

Lo zio Filippo non aveva figli maschi, allora si rivolse ad un suo nipote che si chiamava Gustavo Hirsch, figlio di sua sorella che aveva sposato un certo Hirsch ed aveva tanti figli. Questo figlio Gustavo diventò medico dello Zar Alessandro III e dopo dello Zar Nicola II. Gustavo Hirsch era il fratello di mio nonno e in terrazza abbiamo una statua in marmo, scolpito da un artista russo, che lo rappresenta.

Anche lo zio Gustavo non aveva figli maschi, perciò cercava fra i suoi parenti uno che seguisse la sua carriera. Tra i tanti figli di suo fratello Julius, mio nonno, rivolse la sua attenzione a quello maggiore, maschio, che si chiamava Martin ed era mio padre. Lo voleva introdurre nella sua carriera e farlo diventare suo successore come medico dello Zar. Martin però era un ribelle, era amico di tutti i rivoluzionari e si rifiutò di studiare medicina. Per questo gli furono tagliati i viveri e si dovette mantenere da solo. Si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza all’università di S.Pietroburgo e riuscì a mantenersi bene con lezioni private, scritti e borse di studio.

Nella vecchia Russia zarista avevano tutti paura della polizia la quale dava la caccia ai rivoluzionari però c’era una regola nella vecchia Russia che impediva alla polizia di entrare in due posti; uno di questi era l’università e l’altra era la Marina militare. Questo spiega per esempio la storia dell’incrociatore Potemkin che abbiamo tutti visto nel famoso film di Esenstain, quando la corazzata Potemkin si allontanò indisturbata, dopo tutto quel fatto, perché la polizia non aveva il diritto di salire su una nave da guerra. Lo stesso succedeva con l’università, ed è per questo che l’università di S.Pietroburgo era l’asilo di tutti i rivoluzionari, molti, tra i quali mio padre, dormivano anche all’interno perchè se fossero usciti sarebbero stati arrestati.

Mio padre ha fatto la sua carriera universitaria da povero studente però fu spesso invitato in palazzi e anche a corte come membro di una famiglia ben accreditata. D’estate andava a Zarskoe-Selo dove tutta la corte faceva la villeggiatura e anche lì si manteneva dando lezioni a molte persone.

Prima diventò giudice, ma non gli piaceva quel mestiere, e poi diventò avvocato. Aprì uno studio di avvocato a Reval, sua città natale, e diventò molto famoso perché era molto bravo come avvocato. Aveva questo grande amico avvocato, Poska, che gli fece conoscere mia madre. Erano entrambi dei costituzionalisti e , quando l’Estonia divenne paese indipendente, con l’aiuto anche di altri giuristi scrissero la Costituzione del paese che fu considerata la migliore costituzione repubblicana del mondo e fu adottata addirittura anche dalla Unione Sovietica; qui però non fu applicata bene perché c’era ill Partito Comunista che comandava.

In Estonia durante la Rivoluzione fu ammazzata molta gente, poi, in questo paese, prettamente agricolo, venne fatta la Riforma agraria; questa riforma agraria contemplava che i terreni coltivabili fossero divisi in piccole proprietà di 50 ettari l’uno e ogni proprietario potesse coltivare i suoi terreni come voleva. Oltre a questa proprietà se voleva poteva anche prendere in affitto altri terreni ma la sua proprietà non poteva essere superiore a 50 ettari. Tutta la parte di bosco che non veniva invece coltivata era di proprietà statale e lo Stato la sfruttava soprattutto per la raccolta della legna e c’erano delle ordinanze da rispettare per tagliare la legna nel bosco. Non si poteva tagliare completamente un pezzo di bosco, si doveva lasciare un certo numero di alberi per ricostituire il patrimonio boschivo; questi alberi rimasti seminavano da sé generando altri alberi e, dopo tanti anni, lo stesso pezzo di bosco rendeva come in precedenza.

L’Estonia era una zona agricola che produceva soprattutto bestiame, tra cui maiali, formaggio, latte, burro ed esportava questi prodotti ovunque con le navi. Il burro veniva mandato in Danimarca dove diventava il famoso burro danese. I maiali furono esportati in Inghilterra e diventavano bacon.

Si produceva anche della carta con la legna dei boschi che si esportava per fare giornali e rendeva molto.

In Estonia c’erano anche delle industrie; quella più grande era un’enorme fabbrica dove costruivano delle navi e particolarmente navi da guerra. Una società anglo-russa produceva in Estonia i famosi “dreadnout”, noti incrociatori inglesi che poi furono costruiti per la società Vickers. Mio padre era il consulente giuridico di questa società e, siccome era molto conosciuto come avvocato in tutti i paesi nordici, ogni tanto faceva dei viaggi per processi in Svezia e anche in Inghilterra.

 

E mi raccontava che, quando andava in Inghilterra, in tribunale come tutti i giudici e gli avvocati doveva mettersi la parrucca anche se gli faceva schifo in quanto quelle parrucche erano vecchie e tarlate.

Egli era nato in campagna da una famiglia molto numerosa: in origine i figli erano nove ma diversi sono morti da ragazzi e io ne ho conosciuti solo quattro.

Mio nonno era amministratore delle immense terre del principe Volkonski che stava sempre in Estonia nel castello di Fall e vicino a questo castello, in un piccolo paesino, c’era la casa del nonno.

Mio padre quando era a scuola lo mandavano in città, in pensione in qualche famiglia; d’estate invece stava sempre in campagna e con il figlio maggiore del principe Volkonski insieme ai ragazzini del villaggio si divertivano a portare a spasso al pascolo i cavalli bradi. Naturalmente montavano senza sella, a pelo, e si divertivano a fare tanti giochi di abilità, per esempio saltare dalla groppa di un cavallo ad un altro ed il più pericoloso era il gioco che consisteva nello sdraiarsi con la schiena sopra la groppa di due o tre cavalli quando i cavalli galoppavano uno accanto all’altro ; un gioco molto pericoloso però, come sempre, i ragazzi non pensano mai al pericolo. Mio padre diceva che quella sua abitudine di stare, fin da piccolo, sempre a cavallo d’estate gli ha impedito lo sviluppo normale delle sue gambe, era un gigante seduto ma quando era in piedi misurava soltanto 1 metro e 85 centimetri, il che nei paesi nordici viene considerata una statura media.

Quando mio padre finì il liceo, la famiglia e in particolare lo zio Gustavo avrebbe voluto che studiasse medicina per prendere dopo il suo posto come medico dello Zar. Mio padre però non era d’accordo, egli era un ribelle e aveva già fatto amicizia con diversi uomini che preparavano la Rivoluzione e così si rifiutò di studiare medicina e andò a S. Pietroburgo a studiare giurisprudenza. Per questo gli tagliarono i viveri e, per mantenersi all’Università fece diversi scritti e prese borse di studio.

I fratelli di mio padre erano diversi ma io ne ho conosciuti pochi.

Una sorella che era musicista, suonava il pianoforte e aveva aperto una scuola di musica nella quale insegnava lei e altri artisti; si chiamava Ella ed era una persona molto vivace ma molto grassa, così non era molto bella ma tanto simpatica.

Poi c’era il fratello che veniva dopo di lui, Ernesto; era una persona più modesta ed era cancelliere al tribunale; non si è mai sposato ed è morto abbastanza giovane; io l’ho conosciuto solo quando ero bambina piccola.

Un altro fratello si chiamava Filippo ed era ufficiale; quando l’ho conosciuto era ufficiale di Stato Maggiore perciò portava l’uniforme di un reggimento dello Zar che si chiamava Dwinski Polk ed aveva sul berretto i colori bianchi. Questo zio Filippo era sposato ma poi divorziato; dicevano che fosse molto donnaiolo, così durante la prima guerra mondiale, nonostante fosse ufficiale di Stato Maggiore, per una questione di donne, fu mandato in prima linea dove morì nel febbraio del 1915.

Il fratello minore si chiamava Paul, aveva 18 anni meno di mio padre, era impiegato al Ministero della Corte come primo aiutante del ministro della Corte, Frederiks. Egli faceva a S. Pietroburgo una vita molto brillante e la mia mamma diceva sempre: “Per sposarsi cerca al minimo una principessa”; in realtà la sua vita è stata molto diversa da come la progettava perché, durante la Rivoluzione, dovette scappare da S. Pietroburgo. Egli era scapolo e aveva una governante, nativa dell’Estonia, che probabilmente era

innamorata di lui perché, durante la Rivoluzione, gli propose di salvarlo. Allora andò nel paese dove viveva la sua famiglia e tornò con un carretto da contadini dalla forma di una cassetta montata su quattro ruote e riempita di fieno e sopra questo veniva messa un’asse dove si sedeva la persona che guidava i cavalli; questa donna, di cui non ricordo il nome, si vestì da contadina con una sottana grande ed un fazzoletto in testa, fece accomodare lo zio Paul dentro la cassetta, sotto il fieno, lo coprì con la sua gonna e piano piano col cavallino andarono verso Ovest in Estonia e arrivarono al villaggio dove viveva la famiglia di questa donna.

Quale ringraziamento per averlo salvato egli dovette sposarla; io l’ho conosciuta poco perché mia mamma riteneva che Paul avesse fatto una mezza alliance perciò non l’ha mai ricevuta in casa.

Mio padre era un grande lavoratore; aveva incominciato, come ho già detto, come giudice ma, siccome non gli piaceva fare il giudice, si mise a fare l’avvocato e, lavorando tanto e bene, riuscì a formare un bel patrimonio. La nostra famiglia poteva vivere molto bene e vedere il futuro molto roseo. Quando però arrivò la Rivoluzione tutti i patrimoni in denaro andarono persi perché il rublo zarista non valeva più nulla. Mi ricordo che un giorno mio padre arrivò a casa con dei grandi pacchi; aprì i pacchi e dentro c’erano tante banconote e disse: ”Ecco questo è tutto quello che abbiamo e non vale più nulla”; aveva ritirato dalla banca tutti i suoi soldi ma erano solo dei pezzetti di carta. Per fortuna potè riprendere ben presto a lavorare e, dopo un periodo piuttosto difficile per la famiglia, egli riuscì a guadagnare di nuovo tanto denaro da poter vivere bene e farsi un bel patrimonio nella libera Estonia.

Negli anni 20-22 ci fu molto traffico fra tutto il mondo occidentale e la nuova Unione Sovietica e per tante questioni giuridiche che si presentavano fra i diversi Paesi e le Nazioni venne sempre chiamato mio padre. In quegli anni, guadagnò molto e la sua fama era così grande che veniva chiamato in tutti i paesi del Nord; viaggiava molto perché aveva dei processi anche in Svezia, in Inghilterra, in Finlandia e anche in Germania.

 

 

La villeggiatura

 

In quel tempo, dal 1914 per qualche anno, d’estate, noi andavamo in villeggiatura al mare a Loksa; assieme ad alcuni parenti prendevamo in affitto delle case che si chiamano “dacie” e sono case di legno vicino al mare, grandi e molto confortevoli. Ogni famiglia viveva nella propria casa ma ci si ritrovava sempre volentieri. Oltre a noi, ai miei nonni materni con la figlia più giovane, Manon, una ragazza di 17-18 anni, alla zia Stella con il marito e due figli, c’erano sempre altre famiglie amiche, fra le quali noi frequentavamo molto la famiglia di un medico che si chiamava Armsen e aveva 4 figli circa della nostra età. La maggiore è stata poi a scuola con me.

La nostra casa era in mezzo ad un grande giardino con alberi alti tanto che per andare alla spiaggia dovevamo fare pochi passi attraverso un boschetto e poi, attraversando le dune, si trovava una distesa di sabbia finissima. Le persone adulte, percorrendo una passerella larga un’asse, accedevano ad una casetta su tronchi d’albero per poi fare il bagno in mare; i bambini facevano il bagno solo nell’acqua bassa quando questa raggiungeva almeno 20° e cioè raramente.

Mio fratello ed io, quando eravamo piccolini, non indossavamo costumi da bagno, tanto che ho una fotografia molto carina dove siamo ripresi dal di dietro, uno accanto all’altro, tutti e due nudi ed io tengo accanto a me solo un grande cappello che mi riparava dal sole.

Questa villeggiatura durava diversi mesi, generalmente giugno, luglio e agosto, perciò ci si trasferiva con tante cose che si portavano dalla città e che mancavano al mare.

La spedizione per la villeggiatura era tutto un programma. Il giorno prima della nostra partenza partivano due delle nostre donne di servizio con un carro trainato da cavalli con tante cose che ci sarebbero servite: biancheria, stoviglie, pentole per la cucina, provviste e tante cose che avrebbero reso confortevole la casa di campagna. Il giorno dopo partivamo noi tutti e la governante con una enorme carrozza che si prendeva a nolo e che era molto simile a quelle che circolavano nelle città italiane ma molto più grandi così da poter stare in tante persone e più larghe da poter attaccare quattro cavalli. Mi ricordo ancora i nomi di tre cavalli: Mira, Mara e Lilla, cavalli che erano sempre gli stessi tutti gli anni. Con questa carrozza dovevamo viaggiare quasi una intera giornata e caricavamo valigie, cappotti, tante cose che sarebbero servite in caso di brutto tempo e, in una cesta di vimini molto grande, tante cose buone da mangiare, piatti e bicchieri perché ogni tanto ci si fermava a fare uno spuntino. Inoltre, nell’arco della giornata, ci si fermava in una trattoria sulla strada per far riposare i cavalli e per mangiare delle cose calde. La spedizione del trasferimento era piuttosto importante e si arrivava nel luogo di villeggiatura piuttosto tardi, la sera.

La dacia aveva tre piani; al piano terreno c’erano il soggiorno, la sala da pranzo, la cucina e una grande veranda che dava sul giardino; al primo piano c’erano le camere da letto e un bagno improvvisato, anche se in realtà ci si lavava sempre in camera da letto con brocca e catino; al secondo piano c’erano le stanze per le donne di servizio che dormivano su dei sacchi riempiti di fieno. Mi ricordo che gli involucri di stoffa di questi sacchi venivano portati dalle donne durante la prima spedizione perché dovevano essere riempiti sul posto per preparare i loro materassi prima del nostro arrivo.

Nel cortile c’era un pozzo, detto “a bilancia”, dal quale bisognava attingere l’acqua e per riempire il secchio, che era appeso a una stanga movibile, bisognava tirarlo giù e poi tirarlo su e portare l’acqua in casa.

Questa non era una cosa molto comoda ma a quei tempi non si conoscevano molte comodità che ora vengono considerate normali.

Nell’anno 1914 in villeggiatura da noi venne anche lo zio Filippo il quale proprio allora era stato promosso capitano di Stato Maggiore e portò con sé la sua tenda e naturalmente l’attendente. Questi montò la tenda nel giardino della dacia e noi bambini eravamo molto felici perché giocavamo sempre dentro la tenda. Poi un giorno, in agosto, lo zio improvvisamente dovette partire; l’attendente smontò la tenda, fece i bagagli e noi salutammo lo zio che partiva con la nave per S. Pietroburgo e fu così che seppi che era scoppiata la guerra con la Germania.

Mio padre stava con noi soltanto alla fine della settimana, egli arrivava con la nave che portava tutti i mariti e i padri delle famiglie in villeggiatura. Allora noi andavamo al porto a riceverlo e vicino al porto c’era un piccolo agglomerato di cittadina che era abbastanza lontano dalla spiaggia. Qui c’era una grande fabbrica di mattoni che alla sera era chiusa, però noi bambini entravamo nella fabbrica chiusa e ci divertivamo con i piccoli vagoni che trasportavano i mattoni, naturalmente sempre sorvegliati e aiutati dalla governante che quell’anno era ancora la tedesca Matilde.

In seguito abbiamo avuto altre governanti ma questa la ricordo meglio.

 

 

Lo spirito di guerra – 1915

 

Tornati in città si diffuse un po’ lo spirito della guerra; arrivavano delle notizie di bombardamenti di porti soprattutto dalle navi nemiche e, siccome Reval era un porto molto importante, tutti temevamo anche degli attacchi; così diverse famiglie decisero di mandare i bambini piccoli all’estero e il paese più sicuro sembrava la Svezia. Anche mio padre decise che mia mamma e noi due bambini dovevamo andare a trascorrere alcuni mesi in Svezia nella speranza che la guerra finisse presto. Così nel febbraio del 1915 noi partimmo e nello stesso tempo partì anche la sorella di mia mamma Ivonne che aveva sposato un industriale molto ricco e aveva due figli; facemmo insieme solo il viaggio in treno, viaggio che durò cinque giorni e cinque notti, con una sosta di una settimana a S. Pietroburgo.

La città di S. Pietroburgo si raggiungeva in treno con un viaggio di dieci ore circa.

A S. Pietroburgo, per la prima volta in vita mia, andai in un albergo dove c’era la luce elettrica; prima non sapevo neanche che esistesse, perciò fu molto divertente accendere e spegnere le luci. Della città non mi ricordo molto perché ero troppo piccolina; l’unico ricordo è quello di una strada lunghissima che si chiamava Newski Prospekt e in fondo si vedeva una torre o un campanile che ho visto e riconosciuto anche dopo in certe fotografie della città di S. Pietroburgo.

Un altro ricordo un po’ sfumato è quello di una enorme chiesa il cui soffitto era come un cielo stellato con stelle d’oro su un fondo blu scuro; questa era l’Isaakovski Sabor, la cattedrale di Isacco.

 

A S. Pietroburgo andammo anche a trovare anche i nostri parenti: la vedova del dottor Gustavo, la zia Misi, e le sue due figliole, Olga e Niuta, cugine di mio padre, tutte e due zitelle. Abitavano nel palazzo Anitchkov Palais dove avevano un enorme appartamento; mi ricordo di aver attraversato sale e sale e sale e in una di quelle la cugina Olga mi mostrò un angolo dove allevava i canarini; quest’angolo era chiuso a diagonale da un grande drappeggio di stoffa rossa e nei drappeggi della tenda nidificavano i canarini che poi svolazzavano in tutta la stanza.

Un salone mi impressionò particolarmente in quanto tra i molti cimeli di caccia, in mezzo a corna e musi di animali, spiccava un’enorme testa di bufalo che ho rivisto proprio in casa nostra quando le due cugine si rifugiarono da noi nel 1920 scappando a causa della Rivoluzione. La caccia al bufalo europeo, che è un po’ diverso come aspetto da quello americano, era permessa solo allo Zar e al suo seguito nella foresta di Belowege che si trova fra la Lituania e la Polonia, pertanto lo zio, siccome andava sempre a caccia con lo Zar, riuscì ad avere una testa, quale trofeo, una volta ammazzato uno di questi grandi bestioni.

Durante la visita ai parenti ci intrattenemmo tutto il pomeriggio con loro e prendemmo il tè intorno ad una bella tavola apparecchiata. Dietro ad ogni persona seduta a tavola c’era un servitore e io, che non ero abituata a queste cose, mi voltavo in continuazione a vedere che cosa stesse facendo l’uomo che stava dietro a me; in uno di questi movimenti rovesciai la tazza di tè con grande mio spavento, ma la zia mi tranquillizzò dicendomi: “Non ci pensare, tanto la tovaglia si laverà, oggi è sabato.”

 

Da S. Pietroburgo si prese il treno alla stazione di Finlandia e si fece tutto il giro del mar baltico per arrivare a Stoccolma; fu un viaggio lunghissimo. Si attraversò prima tutta la Finlandia e mi ricordo di una città in Finlandia dove mio padre comprò un dolce particolare tipico del posto e delle fette di prosciutto di orso; è stata l’unica volta che io ho mangiato questo cibo speciale, era un prosciutto piuttosto scuro di colore quasi violaceo, molto saporito e mi piacque moltissimo.

Da questa città finlandese, che si chiama Wiborg e che fa ora parte di nuovo della Russia, il viaggio era ancora molto lungo e solo dopo giorni e notti si arrivò al confine con la Svezia. Dal momento che le vie ferrate della Russia e della Svezia non coincidevano in larghezza, siamo dovuti scendere dal treno russo e fare un tratto di strada con la slitta per risalire poi alla stazione svedese su un treno diverso.

Noi avevamo sentito tanto parlare delle renne che tiravano le slitte, speravamo quindi di vederle e di essere trasportati da loro, invece all’arrivo trovammo le slitte ma trainate da dei piccoli cavalli. Si stava quasi sdraiati dentro; gli adulti avevano una copertura di pelle o di pelliccia fino alla vita e ficcarono noi due bambini sotto la coperta, il che mi piaceva molto poco e facevo di tutto per tirar fuori ogni tanto la testa e vedere cosa succedeva ma, anche se qualche volta riuscivo a sbirciare, i cavalli correvano tanto in fretta che l’aria gelata mi pizzicava il naso ed ero costretta a nascondermi sotto la coperta.

Al confine nei pressi della stazione c’era un grande ristorante riscaldato dove bevemmo e mangiammo roba calda prima di riprendere il treno per Stoccolma.

A Stoccolma alloggiammo in un grande albergo “Gran Hotel Strand” il quale è rappresentato in una cartolina che è conservata nell’album delle fotografie.

Una visita molto interessante per me fu quella allo zoo per vedere gli animali esotici; non avevo mai visto uno zoo prima di allora e quegli animali mi piacquero tanto a parte lo gnu che trovai molto brutto.

A Stoccolma poi i miei genitori decisero che la mamma con noi bambini saremmo rimasti qualche mese nel posto più tranquillo della città e precisamente nel sobborgo che si chiamava Danderud. Si andò a abitare nella villa di una famiglia e la figlia dei proprietari, Ebba, prese l’incarico di badare a noi bambini. Si stava come payng guest in questa famiglia: si mangiava, si dormiva; era molto bello e lì trascorremmo tutta l’estate.

La signorina Ebba era fidanzata con un ufficiale svedese il quale veniva spesso a trovarla e insieme facevamo delle lunghe passeggiate; egli raccontava della vita militare e diceva che tutti gli ufficiali svedesi dovevano saper cucire e cucinare; era un obbligo per loro.

La nuova casa di Reval

 

Passò tutta l’estate e, quando si capì che la guerra sarebbe durata più a lungo, mio padre decise di farci tornare a Reval e venne a prenderci. Al ritorno ci fu una novità, infatti mio padre, durante la nostra assenza, aveva cambiato casa e così andammo ad abitare in un appartamento molto più bello e più grande, con la luce elettrica e molte comodità. La nuova casa era nel centro della città fra due strade che si univano in uno spiazzo largo di proprietà di una grande banca; al pianterreno c’era un famoso pellicciaio dove tutte le signore eleganti andavano a comprarsi la pelliccia, al primo piano c’era la banca, al secondo piano stavamo noi.

Le finestre del nostro appartamento davano su due strade e lo spiazzo era davanti l’entrata; all’interno c’era anche l’ascensore, una cosa nuova per me, e il portiere aveva grandi galloni d’oro sulla giacca e sul cappello. L’appartamento si sviluppava a forma di U intorno ad un cortile interno; partendo dall’entrata c’era prima lo studio di mio padre e accanto quello del suo sostituto, di fronte c’era una stanzetta per la segretaria e un gabinetto. Poi c’era un grande salone ad angolo con tante finestre dove aspettavano i clienti di mio padre nelle ore di ricevimento oppure venivano ricevuti gli ospiti o la gente di passaggio. Accanto c’era una grande stanza adibita a salotto dalla mia mamma la quale potè finalmente avere un salotto grande tutto per sé; da questa stanza si poteva accedere alla sala da pranzo che era di passaggio e aveva un balcone sul cortiletto. Dopo la sala da pranzo si passava al lungo corridoio della zona notte, all’inizio del quale, a destra, c’era un grande bagno con la vasca e tutti gli accessori e, a sinistra, la camera dei miei genitori; più avanti c’era una stanza più piccola, quale soggiorno dei bambini e poi la camera da letto mia e del mio fratellino; il corridoio proseguiva e, a destra, c’era la cucina grande mentre a sinistra c’era la stanza dove dormivano le donne di servizio e un piccolo gabinetto con lavandino, per loro. In fondo a questo corridoio c’era una uscita su una scala di servizio che portava sulla strada più nascosta, strada che però a noi era stato impedito di usare.

In bagno e in cucina avevamo sempre l’acqua calda perché questa veniva scaldata in un grande serbatoio situato sopra la cucina economica nella quale c’era quasi sempre un fuoco di legna acceso; l’acqua però non era potabile perché l’acqua della mia città, a quei tempi, veniva da un laghetto, a rischio d’inquinamento, che si trovava su una collina dietro la città; qualche volta infatti l’acqua per lavarsi arrivava un po’ scura o con piccoli pesciolini dentro. L’acqua da bere doveva essere sempre bollita, per questo, su un piccolo tavolo, nella sala da pranzo c’era una caraffa con l’acqua bollita e tanti bicchieri.

La bevanda preferita da tutti era il tè, infatti, ogni giorno verso le undici, i clienti, i segretari e i lavoratori di mio padre bevevano del tè che veniva preparato in un enorme samowac di rame che conserva ancora la Romola. Assieme al tè a quell’ora ognuno faceva uno spuntino perché l’orario dei pasti nella nuova casa era cambiato: verso le due si faceva la colazione, alla quale ora assistevamo anche noi bambini, e alle otto di sera la cena.

Nel pomeriggio le signore facevano merenda con caffè, latte e pasticcini; la cuoca preparava sempre dei dolci che venivano serviti a quell’ora e a noi bambini era permesso di fare merenda assieme alle signore.

Io e mio fratello eravamo cresciuti, pertanto non rimanevamo più chiusi nelle nostre stanze ma potevamo girare per tutta la casa; naturalmente quando giocavamo o studiavamo nella nostra stanza da giochi , mi ricordo che avevamo un grande armadio a muro pieno di giocattoli, una grande carta d’Europa alla parete perché dovevamo imparare bene la geografia e un cartello con tutte le parole in russo che si scrivevano con una lettera speciale “jat” molto difficile tanto che dovevamo imparare a memoria quelle parole.

Frequentavamo ancora la scuola privatamente e avevamo un’insegnante di russo che veniva a casa nostra; per un anno o due frequentammo la scuola elementare presso questa signora che faceva il circolo dei bambini in tedesco; siccome durante la guerra le scuole tedesche erano chiuse, questa signora aveva formato un circolo dove insegnava, in tedesco, grammatica, scienze, matematica e storia e la nostra governante ci accompagnava a piedi in questo circolo e verso l’una ci veniva a riprendere.

 

 

I primi anni ’20

 

L’estate dopo non si tornò di nuovo a Loxa ma si andò a fare la villeggiatura in una piccola città sul mare che era un posto dove facevano delle cure col fango si chiama Apsald, e lì abitava una parte della famiglia di mio padre cioè molti cugini e cugine sue, e anche la sua sorella Ella ci andava in villeggiatura.

Tornando in città mio fratello si ammalò peggio di prima e non poté più andare a scuola, allora di nuovo andammo a fare lezione da una signora che faceva lezione anche ai ragazzi di un’altra famiglia.

Per mio padre cominciò un buon periodo di lavoro perché essendo l’Estonia pacificata e con un regime molto buono e tranquillo per tutti, riacquistò la sua importanza come porto e soprattutto come porto di passaggio delle merci da e per l’Unione Sovietica.

 

L’Unione Sovietica a quei tempi ancora proprio dopo l’ordinanza di Lenin per il Nep cominciò a comprare dei prodotti industriali dal resto dell’Europa, c’erano dei contratti molto importanti fra i governi e ci voleva sempre un giurista per avallarli, così mio padre era chiamato per avallare tutti questi contratti e guadagnò molti soldi in quei tempi.

L’Unione Sovietica pagava addirittura in oro e così c’erano i lingotti d’oro che passavano da una parte all’altra, spesso mio padre ne doveva tenere diversi nella sua cassaforte e gli proponevano sempre di tenerne qualcuno per sé, ma lui non ha mai accettato queste cose poco pulite e restituiva tutti fino all’ultimo a chi li aveva messi in cassaforte per tenerli.

Tutto quello che era la vita quotidiana era ridiventato normale e tutte le case mettevano la luce elettrica che prima non c’era e anche il tram per Katrindal fu elettrificato, solo la luce per le strade era ancora a gas, il quale si produceva con il Kokc oppure anche con una specie di pietra che bruciava che si adoperava in Estonia anche per mandare avanti le ferrovie, è una specie di ardesia, il nome stesso dice già perché è una pietra che arde che si trova anche in altri posti e si sapeva sempre che in una parte dell’Estonia le rocce erano fatte di questa pietra ed era una grande risorsa interna del Paese, soprattutto per le industrie che potevano utilizzarla come fonte di energia.

Le industrie ripresero a funzionare si producevano stoffe anche di nylon che era allora una cosa nuova e, soprattutto l’agricoltura andava bene nel Paese perché con la riforma agraria tutti i contadini erano diventati proprietari e potevano allevare i loro maiali, produrre le loro patate in grande quantità; si cominciò ad esportare anche e soprattutto burro e coste di maiale: il burro andava in Danimarca e veniva poi riproposto lì come burro danese di prima qualità, i maiali andavano in Inghilterra e diventavano il famoso bacon inglese che era molto considerato in tutta l’Europa.

 

Ho già raccontato della morte di mio fratello, fu nell’anno 1920 quando finalmente mio padre si potè permettere il primo viaggio all’estero proprio a causa della salute del mio fratellino; tornato in città, a casa, ci fu un avvenimento per me molto significativo perché le due cugine di mio padre che stavano a Pietroburgo ebbero il permesso di venire in Estonia perché ci fu allora un accordo con l’Unione Sovietica di Estonia che tutte le persone che erano di origine estone potevano optare per questo Paese e tornarci portandosi dietro tutti i loro averi cioè i mobili perché i soldi erano tutti andati persi.

Così arrivarono queste due cugine anziane e portarono un vagone pieno di vecchi mobili. Per vivere loro cominciarono a vendere questi oggetti e, per aiutarle, mio padre ne comprò alcuni, così in casa avemmo delle cose che erano state nel famoso palazzo a Nitchkov a Pietroburgo.

Le zie Olga e Niuta furono alloggiate nella nostra ex camera di bambini e, io dormivo in camera coi miei genitori.

Poi, su per giù nello stesso periodo, arrivò anche una sorella di mia madre la zia Marcelle la quale era stata a Mosca dove si era sposata con un ufficiale russo, il quale poi durante la Rivoluzione sparì e non si seppe mai più nulla di lui; allora lei riprese la sua cittadinanza francese e con l’aiuto del consolato francese venne anche lei in Estonia e fu alloggiata nella ex stanza della segretaria di mio padre e, del quale lei diventò poi segretaria per farle avere un lavoro.

Più tardi con l’istituzione di un liceo francese a Tallin, come allora si chiamava la nostra città col nome estone, lei diventò ispettrice di questo liceo e allora guadagnando abbastanza soldi si trasferì in una camera ammobiliata presso una famiglia e noi si rimase di nuovo soli.

In quel tempo, come avevo già detto, si scoprì che io avevo preso la tubercolosi da mio fratello e per curarmi si andò in Germania da quello stesso professore Muller.

 

 

In Germania

 

In Germania a quei tempi dopo la rivoluzione che fecero loro c’era un grande disastro finanziario e l’inflazione andò alle stelle, così molta gente, diventata povera, vendeva le loro case a stranieri i quali potevano pagarle in valuta. Era di moda allora chi aveva dei soldi da noi in Estonia di andare fuori in Germania a comprare degli immobili e mio padre ha fatto lo stesso. Noi avevamo un signore conoscente che stava a Berlino e faceva il mediatore immobiliare così, quando si andò la prima volta in Germania tutti quanti, mio padre comprò delle case a Berlino e, fece molto bene perché pagandole in valuta le comprò molto convenientemente ed erano delle case bellissime che poi, dopo un po’, resero anche come affitto abbastanza bene.

Dopo aver scoperto che io avevo la tubercolosi i medici consigliarono a mia mamma di tenermi tutto l’inverno fuori dal nostro Paese che era molto freddo. Così si partiva sempre prima d’estate, in genere si andava in Germania, o in Francia , però la mamma era molto malinconica, dopo la morte del mio fratellino, e non resisteva tanto a star lontano da casa e d’inverno si tornava sempre a casa in Estonia.

Nell’estate 1921 mentre si era in Germania e la mamma faceva una cura per la sua malattia dei reni io mi ammalai di appendicite e fui operata nella città di Fortshamp, in quel momento lì proprio mio padre era in Inghilterra per un processo e arrivò quando io ero già stata operata; si stette tre settimane in questo ospedale e poi ci si mise di nuovo in viaggio e andammo vicino a Monaco di Baviera dove, in un paesino molto vicino alla città, due sorelle di mia madre vivevano perché avevano sposato dei tedeschi.

Però anche quell’anno si tornò d’inverno a casa e, solo molto più tardi nel 1923, dopo un viaggio lungo coi miei genitori e una sosta nella cittadina termale di Karlsfat, dove mia mamma fece di nuovo la cura, si stette d’inverno a Berlino; in una delle case che aveva comprato mio padre a Berlino c’era una pensione e noi ci si installò in quella pensione e si passò lì tutto l’inverno.

Questa era una pensione molto simpatica; la proprietaria era una certa signora Schlegel, vedova di uno degli scrittori Schlegel che in Germania erano molto conosciuti; erano due fratelli scrittori e uno di questi aveva come vedova questa signora Anna. La signora Anna ci coccolò molto quell’inverno e così, negli anni che seguirono, tutte le volte che si passava per Berlino ci si fermava nella sua pensione.

Ci abitavano fisse delle persone molto interessanti, per esempio un funzionario del Ministero degli Esteri e un professore di Università, il quale fece amicizia con mio padre e dopo restò come amministratore delle case.

Due di queste case, per fortuna, mio padre dopo rivendette, ma questa sul viale che costeggiava il canale di Lansbef la tenne sempre perché era una bellissima casa a quattro piani della fine dell’ottocento probabilmente costruita uno scultore che si chiamava Eberlain. Sulla strada questa casa aveva un piccolo giardinetto e lo scultore Eberlain aveva piazzato in quel giardinetto alcune delle sue statue le quali rimasero ancora lì per tanto tempo dopo che noi avevamo comprato questa casa perché gli eredi di Eberlain non si decidevano a levarle. Dietro la casa, che era a forma di L, c’era un grande cortile e in fondo al cortile lo studio di questo scultore, che era una costruzione in ferro e vetro, molto caratteristica, e che veniva dopo sempre affittata a degli scultori perché aveva all’interno anche tutti gli attrezzi per spostare statue e sculture molto grandi.

Questo accenno allo studio di scultura lo faccio perché in seguito fu una cosa molto significativa per me; dopo la guerra quando andai la prima volta in Germania a ricercare quello che era rimasto di questa casa, io la riconobbi per la struttura di questo studio del quale era rimasta in piedi proprio la gabbia di ferro. Inoltre accanto a questa casa c’era il proprietario di una società di spedizioni, il quale, non si sa perché, nel suo cortile dietro aveva una specie di officina con un fumaiolo molto alto fatto di mattoni; dopo la guerra e tutta la distruzione che ci fu, questo fumaiolo miracolosamente era rimasto in piedi, così anche da quello riconobbi il mucchio di rovine che era la nostra casa.

Mentre io e la mamma passavamo l’inverno a Berlino, mio padre si era trasferito dalla grande casa in una villetta sul territorio della fabbrica di navi da guerra la Anglo-Russian Ship Building Corporation. Era una villetta con un giardino che degradava fino al mare, e noi ci si andava con la mamma a raggiungere mio padre per tutto il periodo estivo, poi in autunno si ripartiva e si passava l’inverno all’estero, come si diceva allora, ed era o la Germania o la Francia o un altro Paese.

Io ero intanto guarita e stavo bene; d’estate stavo molto volentieri in quella villetta e facevo il mio comodo tutto il giorno.

In fondo al giardino dopo un cancello si andava proprio sul greto del mare e c’era una barchetta; io prendevo questa barchetta, me ne andavo a zonzo per la baia e andavo su delle piccole isolette basse che si trovavano ad una certa distanza. Su quelle isolette nidificavano i gabbiani, io mi prendevo un piccolo gabbiano appena nato, me lo portavo a casa e lo allevavo: lo facevo nuotare in una grande bacinella di smalto, molto grande, poi acchiappavo dei piccoli pesciolini con una rete glieli mettevo dentro e il gabbiano imparava ad acchiappare i pesciolini.

Quando aveva già formato le vere penne, gli insegnavo anche a volare: lo buttavo per aria tenendolo appollaiato sulla mia mano e per scendere a terra doveva spiccare il volo e così imparava a volare; ogni tanto quando era più grande andava a pescare già nel mare però tornava da me fino quasi all’autunno quando c’erano le grandi riunioni dei gabbiani sulla spiaggia, lui si aggregava e partiva con loro; ma qualche volta io andavo sulla spiaggia e lo chiamavo, si chiamava Peps, e lui lasciava i suoi amici, veniva con grande strepito di voce, si metteva in terra davanti a me, mi raccontava chissà che cosa delle sue avventure e poi ripartiva coi suoi amici. Ne allevavo circa due ogni anno, tutti i tre anni che si fece questa vita lì nella villetta.

La seconda volta che noi si passò tutto l’inverno all’estero, si andò a stare a Monaco di Baviera, proprio perché lì, come avevo già detto, in periferia vivevano le due sorelle di mia mamma; noi però andammo a stare in una pensione in città. Poco tempo prima, andando a fare la cura a Bathmergentem, mia mamma aveva fatto amicizia con una signora che anche lei stava a Monaco: era una pittrice e anche il marito era pittore e, così noi si frequentò molto l’ambiente di pittori anche abbastanza famosi che stavano a Monaco di Baviera. Questa famiglia dell’amica della mia mamma era una famiglia un po’ strana perché lui, il pittore, era più giovane della moglie e in casa avevano un’altra amica era come un menage a tre: un uomo con due donne; questo pittore che aveva circa cinquanta anni, cominciò a fare la corte anche a me. A me non dispiaceva sul momento, però quando cominciò a essere più insistente allora lo mandai al diavolo.

Quell’anno per Natale venne mio padre come sempre a passare le feste con noi, perché lui era rimasto a lavorare là tutto l’anno in Estonia e, per far piacere a noi ci propose un viaggio in Italia. Qualcuno dei suoi amici gli aveva parlato di un posto molto bello con un clima mediterraneo molto mite che si chiamava Abbazia e, allora il resto dell’anno voleva che noi si passasse in un clima migliore di quello freddo di Monaco.

 

 

 

Il viaggio in Italia – 1924

 

Nel gennaio del 1924 partimmo per il mio primo viaggio in Italia.

Si prese il treno per Trieste e, sul treno, nel nostro scompartimento, facemmo conoscenza con un signore che era molto simpatico, all’inizio molto assonnato, e ci raccontava che non aveva dormito tutta la notte perché aveva festeggiato la sua partenza dalla Germania per passare un periodo di lavoro non so più dove nel Sud. Era uno dei fratelli Tissen, delle grandi acciaierie di Hessen, era la pecora nera della famiglia e il fratello serio voleva liberarsi di lui per non pagargli tutti i suoi divertimenti.

Quando entrammo in Italia cominciarono alla stazione a vendere dei piccoli fiaschetti di vino, mio padre e questo signor Tissen comprarono dei fiaschetti “Tissen” non cominciava a bere il vino, naturalmente dal fiasco direttamente, se non avessi cominciato a bere prima io, ma a me il vino secco a quei tempi non piaceva e allora facevo un po’ di smorfie, però Tissen aveva anche una enorme scatola di biscotti e io continuavo a mangiare i suoi biscotti.

Ci fermammo a Trieste solo un giorno perché la mia mamma era molto dispiaciuta per il gran rumore che c’era sempre sulla strada: lei non poteva neanche dormire la notte perché anche di notte c’era gente che parlava, chiacchierava per la strada; di giorno poi c’era il traffico molto forte e tanti venditori ambulanti che gridavano la loro merce, noi non avevamo mai sentito prima una cosa simile e la mamma era disturbata; allora andammo ad Abbazia in un bellissimo albergo che ci avevano consigliato, ci si trovò bene e si stette lì credo una settimana. Facemmo delle gite nei dintorni e fra l’altro andammo con la piccola nave a Fiume che allora aveva un regime speciale sotto il governo di D’Annunzio.

Però in quell’albergo dove si stava eravamo quasi soli e la mamma si rifiutò di restarci tutto il resto dell’inverno da sola con me; così per consolarci mio padre ci propose un giro più verso il Sud.

 

Andammo prima a Venezia, dove io scrissi un saggio su Venezia sotto la pioggia e mi piacque tantissimo; si stava nell’albergo Bauergrunvald proprio sul Canal Grande, io avevo una stanza su un canale secondario e mi piaceva sentire i gondolieri che giravano all’angolo e chiamavano sempre: “a-oh, a-oh” è quella una cosa che non mi era mai successa prima. Perciò Venezia fu un grande amore per me e ci sono sempre tornata con molto entusiasmo.

Dopo di che andammo a Roma.

 

Andando da Venezia verso Roma facemmo una tappa a Verona perché la mia mamma che soffriva di calcoli al fegato, ogni tanto, se si stancava e le veniva una colica, doveva fare molte tappe frequenti e Verona era proprio a metà della nostra strada.

Si arrivò a Verona la sera, era d’inverno già buio a una certa ora e prendemmo un fiacchere che era di quelli chiusi, per andare all’albergo; avevamo scelto l’albergo Accademia che era il migliore di Verona a quel tempo e anche adesso è ancora un bel albergo a Verona, molto moderno e deve essere anche abbastanza di lusso; allora era un albergo normale per una città di provincia.

All’arrivo, davanti all’albergo, aprendo la porta del fiacchere cascò giù tutta la porta, e così si disse: “entriamo in casa con la porta sbattuta”.

L’albergo ci piacque molto, soprattutto a me che mi piacevano le cose antiche; in tutte le stanze c’erano ancora i pavimenti a mosaico veneziano, quello fatto con delle pietruzze piccole a colori molto tenui con disegni di beige, rosa e verde; ora non usano più ed è un peccato perché erano molto belli. Le scale erano di legno e scricchiolavano quando si andava su e giù. Di sotto per magiare c’era una sala molto grande per il ristorante e in mezzo una fontanina che sprizzava l’acqua.

C’era parecchia gente, soprattutto, credo, erano studenti e professori dell’Università e dell’Accademia, in genere molti uomini e abbastanza giovani.

La mamma parlava francese e faceva da interprete per noi, ma si spiegavano abbastanza bene perché il francese a quei tempi lo parlavano dappertutto. Ordinammo la cena e quando arrivò il momento di ordinare la carne, arrivò dalla cucina il cuoco con un’enorme asse con tutti i pezzi di carne cruda sopra; bisognava scegliere noi il pezzo di carne che si voleva mangiare che lui poi lo portava in cucina e lo cucinava.

Restammo a Verona due giorni e visitammo la città che era molto simpatica.

 

Poi si prese il treno per Roma e ci si accomodò all’albergo Assler su Trinità dei Monti. Si aveva dalla finestra una bellissima vista sulla Scala e su Piazza di Spagna e poi tutta Roma ai nostri piedi fino alla Cupola di S. Pietro. Roma mi entusiasmò molto, soprattutto perché già allora avevo un po’ il pallino dell’archeologia e visitare tutte le rovine antiche era una cosa per me proprio speciale. Io di Roma a quei tempi vedevo soprattutto le rovine antiche, il resto passò un po’ in seconda linea, anche la grandiosità di San Pietro e di tutte le altre chiese grandi, non mi fece tanta impressione come il Foro Romano e tutto il resto dell’antichità.

Andammo anche a fare delle gite fuori e fra l’altro andammo a Nemi, dove prosciugando il lago di Nemi, proprio allora, avevano recuperato una nave romana. Non c’era ancora il museo e la nave si trovava in un capannone sulla riva del lago, che era già stato di nuovo riempito d’acqua. Con una piccola mancia la mia mamma ebbe un pezzo di legno della nave di Nemi; siccome dopo, ma parecchi anni dopo, andò a fuoco il museo con la nave di Nemi, la nave romana, così l’unico pezzo rimasto della nave era in casa nostra. Purtroppo con tutti i traslochi e cambiamenti di città anche quell’unico pezzo andò perso.

 

Dopo una settimana di soggiorno a Roma continuammo verso il Sud e andammo a Napoli. A Napoli allora per gli stranieri era di moda andare in una semplice pensione sul mare, sul golfo, che però era di lusso, la pensione Morisette, col nome francese.

Noi ci trovammo benissimo laggiù e così si visitò il museo di Napoli e tante altre cose e facemmo l’escursione a Pompei. Si camminò per quattro ore a Pompei per visitare tutta l’antica città ed io non sentii la stanchezza. Però era una giornata fredda e con il vento che dava noia e mi presi un bel raffreddore, ma non mi preoccupai. Tornata in albergo mi misi seduta sul letto e mi addormentai; questo era il risultato della grande stanchezza. Volevamo andare anche a Capri ma, a causa di quel vento, le navi traghetto non andavano. Ci eravamo però informate. La mamma mia, che aveva avuto di nuovo una colica ed era sotto i fumi della narcosi o della morfina, andò dal portiere della pensione e domandò: “ Con quale tram si va a Capri?” Noi scoppiammo a ridere e quel portiere ci guardò molto male. Si vede che lei non stava bene quel giorno perché aveva preso le medicine.

 

Dopo Napoli si cominciò a risalire verso il nord. La tappa successiva fu Firenze.

A Firenze all’inizio di febbraio faceva freddo, vento, pioggia e la mia prima impressione di Firenze fu pessima. Proprio non mi piacque la città dopo tutte le belle cose che avevo visto nel Sud a Roma, Napoli, dappertutto. Firenze proprio non era per me e non avrei mai pensato che dopo doveva diventare la mia città di residenza.

 

 

Il breve soggiorno a Monaco di Baviera – primavera 1925

 

Così, dopo un breve soggiorno, si ritornò a Monaco di Baviera dove si finì l’anno aspettando la primavera per poter tornare a casa.

A Monaco io non andavo a scuola però avevo una signora che mi dava lezioni di letteratura, di storia e di tutto, in tedesco. Questa signora era anche lei un’archeologa; aveva studiato Storia dell’Arte con un famoso professore di allora che si chiamava Wolfflin e aveva scritto molti libri di testo.

Margherita, questa signora, era già laureata però continuava a studiare all’Università perché il professor Wolfflin faceva l’ultimo anno d’insegnamento a Monaco per poi trasferirsi in Svizzera.

Allora anch’io volevo andare a sentire queste lezioni di Wolfflin, ma erano molto precisi all’Università di Monaco e non lasciavano entrare facilmente delle persone molto giovani. Io avevo quattordici anni e i capelli sulla schiena; allora, per andare alle lezioni, mi mettevo tutti i capelli sotto un gran cappuccione, berretto a quadretti, poi entravo in aula quando era già buio perché il professore faceva lezione con le fotografie e così mi infilavo nell’aula, mi mettevo cheta cheta su una panchetta dell’anfiteatro e ascoltavo. Così le prime nozioni di Storia dell’Arte le ebbi quell’anno all’Università di Monaco.

A primavera andammo per un periodo breve al lago di Stamberg, dove i nostri amici, dei quali avevo già parlato, avevano una villetta proprio vicino all’acqua e una barca a vela; il marito dell’amica di mia mamma andava in giro con quella barca a vela e volentieri portava anche me. Mi divertii molto a queste gite sul lago.

Poi, finito il periodo più freddo nel mio paese, si tornò in Estonia.

Passammo l’estate nella solita villetta, nel sobborgo di Tallin, e, in novembre, si tornò all’estero.

 

In Francia – inverno 1925/26

 

Questa volta avevamo deciso che la mamma ed io avremmo passato l’inverno in Francia a Nizza sul Mar Mediterraneo. Si prese la nave fino in Germania poi, a tappe, passando per il Nord Italia andammo verso Nizza.

A Milano si arrivò di sera senza aver prenotato alberghi e ci dissero che non c’era posto in nessun albergo perché era la sera della gran corsa automobilistica di Monza. Fummo disperate proprio perché la sera bisognava per forza dormire a Milano. Dopo tante e tante difficoltà trovammo una camera in un albergo vicino al Duomo. Questa camera però aveva un’anticamera con un finestrone in alto che era aperto sulle scale e la mia mamma, che aveva sentito tante storie di briganti italiani, aveva una gran paura e disse che non aveva dormito tutta la notte soprattutto perché nelle strade c’era un gran baccano per la gioia dell’esito della corsa di Monza che probabilmente era stata vinta da una macchina italiana.

 

Il giorno dopo si prese il treno per Nizza e, siccome durava abbastanza a lungo, si andò a mangiare nel vagone ristorante. Lì mi capitò per la prima volta di mangiare gli spaghetti; naturalmente né io né mia mamma sapemmo come fare e, mentre tutta l’altra gente aveva già finito il piatto, noi si stava ancora lì a fare la guerra ai primi bocconi. Arrivammo a Nizza la sera. Era una bellissima sera tranquilla col profumo di fiori anche in novembre e mi piacque molto vedere svolazzare i pipistrelli che non avevo mai visti prima.

 

A Nizza trovammo un albergo molto simpatico nel quale si entrava da un grande giardino dove c’erano anche le seggiole e i tavolini per passare il tempo. Era un bellissimo albergo piuttosto piccolo e si ritornò parecchie volte con la mia mamma, negli anni successivi. Facemmo addirittura amicizia con i proprietari; la signora era francese e il marito, albanese, era stato un gran signore titolato ed era vissuto anche parecchi anni in Egitto dove aveva avuto una moglie che era morta in circostanze molto strane; dicevano che l’avesse ammazzata lui. Può anche darsi, ma a me non importava perché era una persona molto simpatica.

Era l’epoca in cui tutti ballavano il charleston, era proprio una mania di ballare; tutti cominciavano già alle undici di mattina negli alberghi a ballare, poi nel pomeriggio si andava al tè danzante al Negresco e in altri alberghi famosi. La mia mamma non ballava molto, io sì e soprattutto il tango. Quando c’era anche il padrone dell’albergo facevamo una coppia perfetta; ci è successo addirittura che, incominciando a ballare noi, tutti gli altri si fermassero per vederci.

Nizza era un posto molto mondano. C’era tanta gente che aveva molti soldi e qui passava l’inverno; tutti i famosi attori di teatro e di varietà venivano a dare gli spettacoli e così anch’io con la mamma andavo al varietà. Per la prima volta io vidi Josephine Backer che allora era la prima che ballava quasi nuda, poi ho sentito Mistanget e Maurice Chevalier e tanti altri famosi di quel tempo.

Noi avevamo dei parenti a Nizza; erano dei lontani cugini di mio padre che erano scappati dalla Russia durante la Rivoluzione. Il cugino era stato generale di divisione di cosacchi e suo figlio capitano di artiglieria. Dopo aver fatto tutti i lavori più umili in Germania erano approdati a Nizza e il cugino faceva il direttore di una casa di riposo per emigrati russi “la Maison franco-russa”. In quella casa di riposo c’erano molte persone interessanti; fra l’altro ho conosciuto la cognata del musicista Tchaikovski e la vedova del generale Dudievich che anche lui era stato uno dei famosi generali bianchi che avevano combattuto contro il comunismo.

Col mio cosiddetto cugino Vowa io andavo molto d’accordo e quando c’erano dei balli o della feste fra gli emigrati russi io andavo sempre con lui a ballare e anche lì ho conosciuto diverse persone interessanti, fra gli altri il figlio di Chiang Kai-Shek, il famoso generale che allora comandava in Cina. Loro ballavano antichi balli che io non conoscevo, per esempio la mazurca che non ho mai imparata a ballare. Ad ogni modo mio cugino mi piaceva molto e io piacevo a lui ma lui non si è mai espresso in questo modo perché ero troppo giovane; ho saputo solo molto dopo che lui aveva avuto voglia di sposarmi ma quando si è dichiarato era troppo tardi.

Il carnevale più famoso di quei tempi era proprio quello di Nizza, con dei cortei di carri enormi molto grandi e molto belli e la folla per le strade. La mia mamma si metteva allora una specie di costume da caccia con i pantaloni a sbuffo e veniva fatta attenzione da tutti che l’applaudivano perché ancora le donne non portavano i pantaloni a quei tempi. Poi c’erano dei balli nei diversi casinò e più famoso era quello a colori: dicevano a tutti di fare dei costumi di certi colori prestabiliti, così anche la mia mamma andò ad una festa di colore fragola e argento. Tutte le signore dell’albergo si cucivano i costumi e mamma si fece il costume da odalisca in quei colori. Solo una signora molto piena di sé se lo fece fare dalla sarta, le altre tutte se lo facevano da sé. A me non portarono a quel ballo perché dicevano che ero troppo piccola, ad ogni modo le vidi partire tutte verso mezzanotte e tornarono alle otto del mattino.

Per Natale mio padre veniva a trovarci e restava qualche settimana con noi. Appena arrivato, tutta la famiglia dei parenti veniva da noi all’albergo per salutarlo e in genere verso le undici del mattino; allora mio padre faceva servire dello champagne e si beveva tutti insieme. Nel costume russo era che, quando una donna ed un uomo facevano il brindisi insieme, l’uomo doveva baciare la mano della donna e lei doveva baciarlo in fronte. La mia mamma era molto imbarazzata per questo rito perché il cugino del marito era piuttosto pelato e lei non sapeva mai dove baciarlo, più su o più giù per centrare la fronte. Mio cugino invece baciava a me il mignolo.

 

Quando cominciò la primavera anche nei paesi nordici noi si tornò a casa in Estonia. Questa volta mio padre aveva lasciato la villetta in riva al mare e aveva preso un appartamento in città e così l’inverno dopo si passò in Estonia. Non si andò all’estero che in estate ed era l’estate del 1926; si tornò a Nizza perché a quei tempi mio padre voleva smettere la sua professione e mettersi a riposo e voleva comprarsi una casa in Provenza.

Andammo a Nizza nel solito albergo e girammo per giorni e giorni visitando delle ville e villette nei dintorni. A me piacque molto una villa un po’ all’interno del paese, non proprio sul mare, in un posto che si chiamava Bellet, apparteneva al principe Murat ed aveva un parco bellissimo con degli alberi di eucalipto enormi come non avevo mai visto prima. Però la mamma non voleva stare così lontana dal paese e purtroppo non la comprarono. Bellet fu famoso dopo per il teatro sperimentale.

Dopo un breve soggiorno anche a Parigi dove incontrammo mia zia Marcelle e ci fece visitare tutta la città, la mia mamma ed io andammo anche a teatro la sera; invece mio padre non voleva venire perché non parlava abbastanza bene il francese. Lui girava per conto suo la città di notte perché voleva vedere “Paris a nu”, volendo dire soltanto “Paris la nuit”, ma lui come ho detto non parlava bene francese.

In ogni modo ci si divertì molto anche a Parigi.

 

 

Il rientro in Estonia – inverno 1926/27

 

Passammo da Berlino dove si sostò nella solita pensione in casa nostra e poi tornammo in Estonia dove mio padre allora aveva preso questa casa, un appartamento in città molto comodo e molto bello, mi piaceva molto.

Era l’anno che le mie ex compagne di scuola si preparavano alla maturità. Io avrei voluto fare con loro anche l’ultimo anno di scuola, invece la mamma aveva paura per la mia salute e non voleva che io uscissi di casa col buio la mattina. Così anche l’ultimo anno prima della maturità ebbi tutti gli insegnanti in casa. Non mi permise neanche di fare gli esami così non ho mai preso il diploma di maturità. Io andavo qualche volta a scuola a trovare le mie amiche e facevano sempre un gran baccano quando io arrivavo; mi facevano molte feste ma purtroppo non è servito per farmi avere il permesso di andare a scuola. Dopo ci siamo tutti dispersi in tutto il mondo e, dopo tanti e tanti anni, qualcuno di noi ci siamo ritrovati e abbiamo fatto delle riunioni molto simpatiche.

L’inverno 1926/27 io feci anche la confermazione, quella che tra i protestanti è al posto della prima comunione, che noi facciamo un po’ più tardi dei cattolici, in genere a quindici – sedici anni. Allora feci tutte le lezioni di religione preparatoria e mi scontrai col nostro pastore; non voleva ammettere l’esistenza del diavolo; feci grandi discussioni con lui su questo tema tanto che in ultimo lui mi chiese se davvero volevo fare la confermazione. Io dissi di sì e la faci molto volentieri. Non ho mai frequentato molto la chiesa ma certo una religione ce l’hanno tutti. Avendo poi molto interesse per tutte le religioni orientali me ne ero fatta una a modo mio e quella non rientra in nessuna e in tutte le Chiese.

A casa in Estonia si faceva una vita molto tranquilla. Io non avevo più obblighi di scuola e allora prendevo lezioni di canto e anche di pittura. Mi iscrissi allo studio di un pittore che era molto famoso nei paesi nordici e si chiamava Kaigradof e io ho imparato abbastanza da lui e soprattutto mi piacerebbe fare i ritratti e devo avere da qualche parte ancora un piccolo album con degli schizzi per ritratti. E nella mia cucina c’è una sola natura morta, unico pezzo sopravvissuto dei miei lavori di pittura. Mi ero iscritta anche in un circolo culturale di giovani ed era molto interessante perché c’erano persone di base linguistica tanto russa che tedesca; ci riunivamo una volta alla settimana in una delle case dei partecipanti e tutte le volte uno di noi doveva presentare un’opera o una conferenza o un pezzo letterario o un pezzo di musica.

Mi piaceva molto questa attività; anche i miei genitori mi incoraggiavano molto per queste cose.

Io mi interessavo molto di letteratura e avevo scritto anche diversi saggi e anche novelle che poi non mi ricordo più dove sono andate a finire. Mi sentivo una futura scrittrice perché non pensavo per niente, allora, di sposarmi soprattutto perché non mi piaceva restare tutta la mia vita in un paese così freddo e buio come l’Estonia.

Mi piaceva molto il Sud, l’Italia, ma anche gli altri paesi, soprattutto africani. Il mio sogno era di andare a finire in Africa in una landa con tanti animali e tante tribù piuttosto selvaggi. Non sapevo come arrivarci e intanto studiavo la storia di tutti i popoli e anche le religioni degli altri Paesi.

 

Il ritorno in Francia – autunno 1927

 

In estate andai con la mia mamma a fare la cura per i reni in Francia a Vichy. La mamma si ammalò gravemente e fu l’ultima volta che andò a fare una cura molto forte, perché si capiva che, quasi quasi, le cure le facevano peggio della sua malattia.

Nell’autunno del 1927 si decise che io e la mia mamma andassimo di nuovo a Nizza per passare l’inverno in un clima più caldo. Così si partì in novembre e andammo al solito albergo a Nizza. La vita a Nizza scorreva tranquilla tra belli divertimenti e gite, e, fra l’altro io prendevo delle lezioni di canto da un maestro molto simpatico che veniva all’albergo due volte alla settimana, e poi anche di letteratura francese, da un’altra parente da parte di mio padre, la quale era venuta via anche lei dalla Russia durante la Rivoluzione e si era rifugiata da una sua sorella che aveva sposato tanto tempo prima un visconte francese e stavano a Golfrouen, il piccolo paese dove era sbarcato Napoleone dopo la sua fuga dall’Elba.

Questi parenti avevano una villetta molto simpatica e ogni tanto andavamo a trovarli e la cugina di mio padre che era vedova di questo visconte, che non ricordo come si chiamava, aveva due figli, fra l’altro un giovanotto che era ufficiale di Marina; però aveva il pallino di farsi frate; ogni tanto andava in un convento dove lo accettavano bene all’inizio, ma poi, quando lui voleva dormire in cella col pigiama di seta e fare il bagno tutti i giorni, i frati lo buttavano fuori, meno una volta che non lo lasciarono andare e lo costrinsero a portare il saio e stare sempre nella cella a pregare. Allora egli scelse la libertà e scappò e ritornò alle sue navi. A me questo cugino era molto simpatico, era allegro e abbastanza vivace; assomigliava assolutamente a un ritratto di un suo antenato spagnolo, cardinale al tempo di Luigi XIII che era venuto dalla Spagna con la regina Anna che era di origine spagnola. E io dico che era proprio questo atavismo, l’eredità del prozio, che glia dava questa idea di farsi frate o sacerdote in qualche modo.

Per le feste di Natale arrivò come sempre mio padre il quale si fermò poco perché trovò che noi ci si divertiva troppo a Nizza e allora, per ricompensarci un po’ di qualche altro avvenimento interessante, ci propose di fare un viaggio nel Nord Africa.

 

 

Dal Nord Africa al Sud Italia – inverno 1927/28

 

In gennaio, partimmo per Marsiglia dove si prese la nave per Algeri e facemmo un bellissimo viaggio da Algeri, prima in treno fino a Costantin che è un paesino un po’ interno nelle montagne dell’Atlantico, e, in quell’anno, caso strano, aveva nevicato anche nel Nord Africa, così vedemmo tutta la campagna coperta di neve con le palme e le piante esotiche coperte da un velo bianco. Gli arabi, tutti imbacuccati nei loro baraccani, e, una cosa che ci stupì molto, il treno era riscaldato con dei lunghi contenitori di metallo, dove c’era della brace dentro, i quali venivano spinti nello scompartimento e noi viaggiatori appoggiavamo i piedi per scaldarci.

Più di tutte mi piacque la città di Tunisi, molto interessante la parte antica e anche bello il giardino botanico che è molto molto grande e ha delle piante interessantissime. Si andò a visitare anche le rovine di Cartagine e degli altri paesini intorno. Fra l’altro si andò anche nelle montagne, in un posto dove c’erano molte scimmie le quali scendevano giù quando venivano i turisti perché si davano loro da mangiare noccioline o pezzi di pane che ci strappavano dalle mani. Era buffo da vedere, come ho fatto delle fotografie, la mia mamma con la pelliccia, seduta su un muretto, che dava da mangiare a delle scimmie molto grandi tipo “paviani”, credo che si chiamino.

Partendo da Tunisi, di nuovo con la nave, verso la Sicilia si passò il bellissimo stagno di Tunisi che era pieno di fenicotteri, bellissimi, rosa sul mare azzurro, però non ho potuto fotografarli perché erano troppo lontani.

A me, che ero venuta dai Paesi lontani, tutte visioni tropicali o africane mi fecero grande effetto e ebbi sempre di più la voglia di andare a vivere in quei Paesi.

 

Ci fermammo anche qualche giorno a Palermo per visitare questa città interessantissima. La mia mamma, al solito, doveva stare molto in albergo per riposarsi e io andavo in giro con mio padre e ogni tanto si andava a bere un caffè o un bicchiere di vino nei caffè dove si trovavano solo sempre degli uomini a bere, a chiacchierare o a giocare alla morra. Quando entravo io con mio padre tutti si fermavano, tutti gli occhi ci seguivano fino al tavolino e anche dopo perché una donna italiana non sarebbe mai entrata in un caffè dove c’erano tanti uomini; io quello non lo sapevo ed ero molto meravigliata di questo effetto che suscitava fra i presenti.

 

Dopo si andò a Taormina che è un posto meraviglioso per passarci l’inverno: un clima meraviglioso, vegetazione bella, c’è l’Etna vicino che dava un po’ di emozioni sempre col pennacchio e le piccole eruzioni in cima. Stavamo in un albergo con la vista sul mare e, siccome Taormina è un po’ in alto, dalla mia camera mi sembrava di vedere un mare più grande del solito e osservavo le paranze che lì pescavano in coppia. Non avevo mai visto pescare in quel modo e mi interessava molto osservare proprio anche questa attività. Eravamo in pieno carnevale; c’erano sempre feste negli alberghi e anche nel paesino facevano la festa la sera in piazza: un’orchestra suonava dei balli molto vivaci, ma chi ballava erano di nuovo solo gli uomini; ballavano a coppie fra di loro perché le donne non venivano in piazza la sera. Le donne stavano alla finestra a guardare. Anche questo mi meravigliò tanto perché io non ero abituata a questa divisione fra uomini e donne.

 

 

A Bolzano – primavera 1928

 

Mio padre doveva tornare in Estonia per il suo lavoro, ma siccome a quell’epoca, cioè in febbraio, faceva ancora molto freddo là, decidemmo che io e la mamma avremmo aspettato la primavera in un posto nel Nord Italia, in un paese vicino a Bolzano, anzi era un sobborgo di Bolzano: il quartiere di Gries dove trovammo una bella pensione con giardino e rimanemmo lì più di un mese. Anche lì la vita era abbastanza piacevole; io e la mamma andavamo spesso in città a fare spese e qualche volta a un concerto oppure visite nei dintorni dove si trovano diversi castelli storici molto interessanti e in altri dove invece c’è la produzione del vino e ci facevano visitare le cantine e a fare sempre degli assaggi dei diversi vini.

Di fronte alla pensione c’erano altre villette e in una di quelle aveva la stanza un ufficiale italiano il quale occhieggiava un po’ dalla nostra parte. Qualche volta in città si vedeva anche lui che passeggiava nella piazza o stava al caffè e qualche volta vedemmo che cominciava a seguirci. Io dico che era rimasto impressionato dalla mia mamma che era una donna bellissima, ma noi non ci facemmo gran caso, finché una volta, nel pomeriggio, io stavo in giardino a leggere e lui si avvicinò e incominciò a parlare con me. Parlavamo in francese perché io non parlavo ancora neanche una parola di italiano e così facemmo conoscenza. Si prese anche appuntamento una sera al casinò di Gries e io con la mamma e altre persone della pensione arrivammo direttamente da una gita tra i vini; eravamo molto allegri, invece trovammo questo ufficiale seduto a un tavolino, solo, con una tazzina di caffè davanti. Si vide che era un po’ scandalizzato dal nostro atteggiamento così rumoroso e allegro; in ogni modo si mise seduto al tavolo della compagnia e cominciò a parlare con tutti che erano per la maggior parte tedeschi ed egli il tedesco non lo parlava, così parlammo soprattutto io e lui in francese.

In seguito ci incontrammo più spesso e, siccome era piacevole stare insieme, un bel momento egli mi chiese se volevo sposarlo. Io ci pensai un pochino su e, siccome a me piaceva molto l’Italia e anche la divisa degli ufficiali era bella e molto elegante e soprattutto quel che mi piaceva era la grande mantella a ruota che portavano la sera gli ufficiali italiani.

Verso la fine di aprile noi cominciammo a fare progetti di ritornare in Estonia e allora dovetti decidermi e dissi di sì a quel che dopo doveva diventare mio marito. Egli si chiamava Alfredo Bellandi; aveva trentasei anni, cioè diciassette anni più di me, però per un uomo è l’età migliore per la vita quotidiana e per il lavoro. Era ufficiale di fanteria e comandava un battaglione del reggimento 232 che era della brigata Avellino che era di stanza a Bolzano.

 

 

In Estonia – estate 1928

 

Partimmo all’inizio di maggio e raccomandammo ad Alfredo di non scrivere nulla prima che noi ci fossimo fatte vive con una lettera perché non avevamo raccontato ancora nulla a mio padre e noi, soprattutto la mamma, volevamo parlargli del mio fidanzamento a voce. Così si attraversò l’Austria, la Germania, si prese la nave a Stettino e sbarcammo a Tallin una mattina. Al porto c’era mio padre con una faccia nera e la prima cosa che ci disse, invece di dire “ben arrivate” disse: – Cosa mi avete combinato in Italia?-, perché egli aveva ricevuto già molte lettere indirizzate a me scritte con una calligrafia molto grande e provenienti dall’Italia.

Quei giorni che passavano mio padre incominciò a calmarsi e cominciò anche a scrivere direttamente al mio fidanzato dicendo soprattutto che io non ero una donna di casa e che doveva pensarci su se voleva veramente sposarmi. Questa opinione di me che aveva mio padre era anche giusta perché io in casa non mi ero mai occupata di nulla; non sapevo neanche cuocere un uovo e non sapevo né stirare né spolverare e però erano tutte cose che forse a me neanche in Italia avrebbero servito molto perché pensavamo che io mi sarei sposata in una casa e in una famiglia abbastanza agiata. Poi mio padre mi dava un certo appannaggio che era su per giù all’altezza dello stipendio di mio marito che in Italia era considerato già un buon stipendio. Di queste cose pratiche me ne sono resa conto soltanto dopo, stando a vivere in Italia; per il momento avevo il grande entusiasmo di trasferirmi in un Paese più bello e più caldo del mio. La cosa più importante sul momento era di imparare l’italiano. Allora noi ci si rivolse all’Ambasciata italiana a Tallin e ci venne incontro uno degli impiegati che era pronto a darmi lezioni. Io presi venti lezioni di italiano da questo signore che si chiamava Ferraris ed era calabrese però non presi nessun accento calabrese perché a quei tempi non sapevo neanche che esistessero le differenze dialettali in Italia. Dopo queste lezioni ero in grado di parlare un poco l’italiano, però mio marito che era toscano mi insegnò più tardi una lingua che era molto più chiare e più corretta.

Passai l’estate in Estonia e facemmo anche un piccolo viaggetto in Finlandia, a trovare una vecchia zia, dalle parti di Beiborg e anche in Finlandia si stava bene. A quei tempi erano Paesi liberi e tranquilli e non c’erano dei problemi economici.

 

 

Il ritorno in Italia – ottobre 1928

 

In ottobre tornammo in Italia; questa volta anche mio padre venne con noi perché voleva conoscere il suo futuro genero. Si tornò a Gries nella solita pensione e mio padre ebbe un lungo colloquio con il mio fidanzato e mi sembra che rimase contento di tutto quello che gli aveva detto. Mio marito, allora fidanzato, era fiorentino e a Firenze aveva la madre e una sorella nubile che faceva la maestra in campagna.

Mio padre ripartì e si rimase d’accordo che lui sarebbe tornato in dicembre quando la mamma ed io ci fossimo trasferite per un po’ a Firenze dove mi dovevo sposare.

Intanto a Bolzano cercammo casa per noi e si trovò un villino alla periferia, in via Della Torre, che era molto bellino in mezzo a un giardino. Lo prendemmo in affitto con tutti i mobili perché per il momento non si pensava di comprare tutto il necessario per la casa. Solo il corredo di biancheria e altre cose utili per la casa i miei genitori mi comprarono “belle e fatte” o fecero fare in un negozio molto bello a Bolzano. Si fecero anche dei bellissimi piumini di piumino d’oca rivestiti di seta pura che esistono ancora e adesso la Ciccina usa per il suo letto.

A quei tempi, nelle famiglie medie italiane, non usava avere dei bei salotti. La casa era molto spesso arredata con due stanze da pranzo: una proprio bella ma molto elaborata per ricevimenti, cene e pranzi con amici e familiari, e l’altra per tutti i giorni che era più un soggiorno normale per la famiglia e dove si teneva in genere due poltrone per i padroni di casa che stavano vicino alla radio che allora era l’acquisto più importante della famiglia. E così i miei genitori, vedendo questo arredamento, decisero di comprare il salotto nuovo e mi ordinarono un bellissimo salotto stile “cheap and daily” rivestito di damasco viola di seta pura. Quella casa era riscaldata con delle belle stufe di maiolica che si caricavano di legna e carbone e c’erano tre stanze al pian terreno: la cucina, un andito dove partiva la scala per andare al piano di sopra con due porte, una per il bagno e l’altra per il gabinetto. Mio padre si scandalizzò molto che il gabinetto fosse senza riscaldamento perché diceva che il posto dove uno deve stare più nudo del solito dovrebbe essere riscaldato, però lì non c’era neanche la possibilità di metterci nulla; allora comprò una grande tela di flanella e la mise davanti alla finestra per riparare dagli spifferi. Nel bagno invece c’era la stufa a tubo che si scaldava con la legna che certamente scaldava tutto l’ambiente oltre che l’acqua. Nell’atrio avevamo messo una stufa a segatura, come non l’avevo mai vista prima, che doveva scaldare la scala e l’atrio, quella veniva riempita una volta al giorno di segatura che veniva bruciata piano piano tutto il giorno e faceva un bel calore. Con la scala si andava di sopra dove c’era una stanza abbastanza grande riscaldata con un’altra stufa, e poi dall’altra parte del corridoio una soffitta, e, passata la soffitta la stanza per la donna di servizio senza riscaldamento; però a quei tempi le donne erano abituate a dormire al freddo e naturalmente mio padre si preoccupò anche per lei e le comprò una bella borsa d’acqua calda e un telo di flanella anche per lei da mettere sopra il lenzuolo per non sentire il freddo della tela.

Fissammo anche una donna che doveva essere una buona cuoca perché io non sapevo fare nulla in cucina e così prendemmo una certa Maria, una ragazza di più di trenta anni, molto vivace che era un incrocio tra tedesco e italiano. Era di Salorno dove è la frontiera di lingua tedesco-italiano in Alto Adige; la mamma sua era italiana e non parlava una parola di tedesco, il padre invece era di origine austriaca e parlava tedesco; così lei era bilingue. Questa Maria effettivamente era una bravissima cuoca; l’unica cosa che non riusciva a fare era di presentare la pasta al dente così mio marito brontolava sempre che la pasta era scotta. Maria faceva dei dolci meravigliosi, aveva delle ricette, già lei, di tutti i dolci austriaci e viennesi e la sua specialità era anche lo strudel: volle un panno speciale per lo strudel sul quale lei stendeva la pasta sottile sottile e quando avevo degli ospiti e lei doveva fare lo strudel, si alzava un’ora prima perché era tutta una cerimonia lunga la preparazione e la cottura di questo dolce.

Il villino che avevamo preso in affitto era di proprietà di una famiglia molto importante di Bolzano, la famiglia Amon che stava accanto in una grande villa in mezzo a un parco. La signora con la quale ho avuto da fare era la più anziana della famiglia che era la mia padrona di casa e, siccome era molto simpatica, abbiamo fatto un po’ di amicizia come si può fare amicizia tra una persona anziana e una ragazza molto giovane come ero io. Però ogni tanto lei mi invitava a casa sua a prendere il tè o il caffè con tanti dolci buoni fatti a casa sua oppure lei veniva da me. Questa famiglia Amon era imparentata anche con diverse famiglie della nobiltà di Bolzano che erano un pochino tutti, a quel tempo, austro-italiani, però con me sono sempre stati gentili e mi hanno accettato bene perché io parlavo tedesco con loro. Altre ville vicine erano abitate anche da persone simpatiche. Ho fatto amicizia, proprio intorno e quasi di fronte c’era una pensione e la padrona della pensione era la vedova di un colonnello austriaco. Allora i tedeschi chiamavano le mogli sempre col titolo del marito; lei era la signora colonnella e io ero la signora maggiora. Lì ho incominciato anche a giocare a bridge perché questa signora giocava a bridge, così trovai subito compagnia intorno alla casa, appena che mi ero sposata.

 

 

Il matrimonio – dicembre 1928

 

Come ho già detto mio padre ripartì perché doveva lavorare in Estonia.

Mia mamma ed io in dicembre ci trasferimmo a Firenze dove dovevamo sposarci. Andammo a stare in una pensione che si chiamava Pensione Beau Sejour in via Gustavo Modena e il proprietario della pensione era molto contento e agitato che noi dovevamo fare il matrimonio a Firenze, però noi si stette solo a dormire lì.

Io conobbi la mia futura suocera e la cognata che erano gli unici parenti del mio fidanzato. Lui aveva molti amici, però al nostro matrimonio ne invitò solo tre che fecero da testimoni.

Da parte mia non avevo nessuna conoscenza. Mi avevano parlato, in casa nostra in Estonia, di una signora originaria del nostro paese che viveva a Firenze, la quale avrebbe voluto conoscerci perché le piaceva, se qualcuno veniva dall’Estonia di riceverlo in casa. Si chiamava Ghertrud Campa. Io dissi al mio fidanzato che volevo andare a trovare questa signora. Quando egli seppe che stava a Rifredi in via delle Gore, mi disse: “Uh…così lontano! Quella è proprio in campagna”. E non mi portò mai. E pensare che Rifredi ora è un quartiere abbastanza vicino al centro di Firenze, allora era considerata piena campagna. Tanto è vero che questa famiglia, che dopo ho conosciuto, aveva un podere in piena regola ancora con il contadino, la stalla, delle mucche, ecc. perché allora Firenze era una città piuttosto piccola senza industria e senza uffici. Era considerata la città dei pensionati.

Pensammo ad una cerimonia molto intima in quei tempi; prima del Concordato era obbligatorio sposarsi in Municipio.

Il matrimonio in chiesa non era considerato legale. Ognuno faceva quel che voleva facendo un secondo matrimonio in chiesa. Il mio fidanzato era cattolico però non praticante. Io invece ero protestante luterana e per sposarci in chiesa avremmo dovuto chiedere una dispensa, un permesso. Così decidemmo di rinunciare alla Chiesa e di andare subito in municipio.

Per il municipio la mamma ed io decidemmo che era inutile mettersi un vestito bianco perché era troppo impegnativo, troppo vistoso. E così andammo la mamma ed io a farci il vestito per il matrimonio. A quei tempi una sartoria molto famosa si chiamava Calabrì e il mio fidanzato ci accompagnò da questa Calabrì dove ordinammo i vestiti. Il mio era color champagne, in crespo di seta molto pesante e poi nello stesso tempo avevo anche ordinato un cappello di feltro circa dello stesso colore. La mia mamma invece volle un vestito di moirè, naturalmente di seta pura, color ciclamino, perciò il vestito della mia mamma era più bello del mio ma lei ci teneva tanto ad avere i vestiti belli.

Così il giorno 15 dicembre 1928 andammo in municipio e ci sposammo civilmente nella famosa sala rossa in palazzo vecchio.

Eravamo la mia mamma, io, il mio fidanzato in grande uniforme con le spalline d’argento e la fascia celeste, mia cognata che non ricordo come era vestita e i due testimoni che erano amici del mio fidanzato. La cerimonia fu abbastanza breve e dopo andammo ad una colazione che avevamo fissato al ristorante Doney in via Tornabuoni. Il ristorante era al 1° piano a quei tempi, sotto c’era il famoso caffè Doney.

Mia suocera non venne né al municipio né al ristorante perché era una persona anziana non molto abituata a uscire di casa.

 

 

Il viaggio di nozze

 

Dopo la colazione andammo alla stazione per partire per il viaggio di nozze che ci doveva portare a Roma, Napoli, Sorrento e Capri. Anche mio padre non assistette al mio matrimonio perché all’ultimo momento per lavoro si è dovuto trattenere più a lungo in Estonia. La mamma dopo partiti tornò a Bolzano e lì la raggiunse mio padre e ci aspettarono nella pensione vicino alla nostra futura casa che si tornasse dal viaggio di nozze.

 

La prima tappa del viaggio di nozze fu Roma dove ci fermammo alcuni giorni. Io conoscevo già un pochino Roma però mio marito mi fece visitare altre cose che non avevo visto e fu molto interessante.

 

Dopo partimmo per Sorrento dove si doveva passare il Natale. Sorrento è una cittadina sulla costa del golfo di Napoli molto bella e molto frequentata d’estate o nella mezza stagione; però in quei tempi d’inverno non ci andava quasi nessuno, così ci trovammo in un albergo molto bellino che si chiamava “La Terrazza” dove eravamo quasi soli. Oltre a noi c’era un vecchio prete e una coppia di giovani, forse anche loro in viaggio di nozze, che dopo poco sparirono. Allora rimanemmo un po’ male perché, da soli, anche un posto abbastanza bello, diventò noioso.

Poi io che ero abituata al Natale dei Paesi nordici che consisteva in una grande festa di famiglia con regali e grandi alberi, per la prima volta passai il Natale senza albero di Natale e senza regalo e fu per me molto strano. La vigilia di Natale andai un po’ in giro per conto mio e comprai come regalo per mio marito due acquerelli molto bellini che esistono ancora, non so chi li ha in casa se la Ciccina o l’Isabella. Io glieli presentai la sera a mio marito. Egli li accettò e non disse nulla. La sera ci fu una grande sparatoria di petardi e di fuochi d’artificio nella chiesa però non si vide nessuno in giro, nessuna gran festa. Allora io pensai se non fanno i regali per Natale li faranno per Capodanno come fanno in Francia (perché in Francia si fanno le strenne l’ultimo dell’anno) e io stetti tranquilla e contenta lo stesso.

Facemmo delle belle passeggiate anche nelle colline intorno. Sorrento mi è sempre piaciuta. Io dopo sono andata lì altre volte sempre molto volentieri. Facemmo una gita molto interessante sul Vesuvio; in quel momento era un pochino in eruzione ma non esagerato, si poteva visitare anche il cratere. C’era la funicolare che portava su fino al bordo e dopo c’erano le guide che ci portavano proprio dentro il cratere; ne prendemmo due e scendemmo giù. In mezzo c’era il cono dal quale eruttava un po’ di lapilli, fuoco e fumo, ma le guide sapevano benissimo il momento quando era il pericolo e da che parte cascavano questi lapilli e in certi punti ci fecero fare delle corse perché la terra era così calda che ci scottava attraverso le scarpe. Una delle guide, quella più brava, aveva un occhio solo perché l’altro l’aveva già perso in un’eruzione del Vesuvio perciò era molto prudente. Questa è stata per me una spedizione e una gita memorabile perché io sono sempre stata un po’ affascinata dai vulcani.

 

Siccome ci si annoiava a Sorrento decidemmo di andare a Capri. A Capri andammo in un albergo molto simpatico e ci diedero una camera con il caminetto perché non c’era il riscaldamento. Allora avevamo sempre questo caminetto acceso così ci scaldavamo perché io ero molto abituata al riscaldamento, invece mio marito aveva sempre dormito in una camera senza riscaldamento. A Capri avemmo la disgrazia che pioveva sempre così anche lì non eravamo molto felici. Ad ogni modo girammo anche lì tutta l’isola e anche sotto la pioggia era interessante e facemmo conoscenza con un pescatore molto anziano che stava lì sulla piazzetta sempre e si faceva fotografare dai turisti col suo berretto rosso in testa, la gran barba bianca ed anch’io ho una fotografia a braccetto di questo pescatore che era quello che andava sempre ad accompagnare il Re d’Italia nelle partite di pesca. Credo che si chiamasse Spadaro.

 

Così andammo a Napoli e da Napoli si fece una gita a Pompei dove ero già stata una volta con i miei genitori, ma fu molto interessante ritornarci. Camminammo quattro ore senza fermarsi mai per le rovine di Pompei e al ritorno a Napoli mi misi seduta sul letto della pensione e mi addormentai immediatamente.

Il giorno dopo era l’ultimo dell’anno ed io come avevo già detto pensavo che i regali sarebbero arrivati l’ultimo dell’anno e così io alla mattina dissi a mio marito: “Io vado a fare un giretto in città” mentre egli non era ancora vestito e si faceva la barba e qualcos’altro. Non mi disse nulla di speciale e uscii tranquillamente. Andai in centro perché volevo regalare a mio marito un accendino; egli fumava ma non molto e accendeva la sigaretta sempre con i cerini che a me non piacevano e allora decisi di comprargli un accendino e di regalarglielo la sera. Mentre camminavo tranquillamente per la strada, dopo aver già comprato l’accendino, me lo vedo spuntare accanto con una faccia molto arrabbiata e mi fece una gran polemica che non dovevo uscire prima, cosa ero andata a fare, ecc. ecc. Tornammo in pensione e anche allora egli era molto arrabbiato e mi rimproverava; così io mi misi a piangere e dopo tanto gli dissi: “Ma io ero andata soltanto per comprarti un regalo e gli diedi l’accendino”. Allora lui cambiò faccia e gli dispiaceva di avermi fatto tutta quella scenata per niente e facemmo la pace e la sera più tardi mi arrivò un enorme cesto di rose come regalo suo per pacificarmi.

Tutta questa arrabbiatura era stata proprio perché a quei tempi in Italia una signora non andava fuori da sola se non c’era il marito ad accompagnarla; ci voleva o una sorella o una zia per fare da “chaperon”, accompagnatrice, mentre nel mio paese c’era molta più libertà e le donne non erano considerate un pericolo per tutti e si poteva andare dove si voleva da sole anche magari a teatro o in un caffè tranquillamente con le amiche o camminare per fare la spesa da sole.

A Napoli l’ultimo dell’anno è una gran festa perché è la festa di S. Gennaro, il patrono di Napoli, e soprattutto fanno dei grandi fuochi d’artificio. Li fanno a mare, grandi e ufficiali, quelli del comune e poi ogni persona in città faceva i fuochi privati. Da tutte le finestre e in tutte le strade scoppiavano fuochi, bengala e anche stelle volanti. Era una gran confusione. Mio marito non voleva che io stessi in mezzo a quella confusione e per fortuna avevamo nella pensione su una bella piazza il balcone dal quale si vedeva tutto il panorama della città fino al mare; così si stette lì sul balcone la sera ad assistere a questi fuochi che erano bellissimi. Poi, ad un certo momento da questi fuochi si era sprigionata una nuvola di fumo che era quasi soffocante, di magnesio che è quello che producono i fuochi quando bruciano; si dovette chiudere le finestre, barricarsi in casa altrimenti ci soffocavamo anche all’interno.

La vita matrimoniale

 

Qualche giorno dopo noi tornammo a Bolzano e cominciò la vita quotidiana abbastanza tranquilla, però fummo invitati da diversi colleghi di mio marito e così conobbi tutta la colonia militare di Bolzano. Alcune di queste signore diventarono mie amiche per tutta la vita, altre invece erano di passaggio e non me le ricordo molto. Si faceva una vita sociale abbastanza tranquilla perché io stavo molto fuori dal centro e, quando invitavo, le persone dovevano venire o col tram o con l’automobile a trovarci.

Allora le macchine erano poche. Solo le persone molto importanti avevano l’automobile; però a me piaceva averne una e allora mio marito si decise a comprare una macchina usata che però era molto bella, aveva motore Fiat (non so se si chiamava 509 Fiat o qualcosa così) però era corazzata fuori serie con una carrozzeria rossa che si chiamava Lambda. Era una macchina aperta e a noi piaceva molto viaggiare anche d’inverno con la macchina aperta. Se pioveva si tirava su un tettino di tela, una capotte nera con dei finestrini laterali di materiale sintetico, credo fosse chiamato “mica” (non era vetro però si poteva vedere fuori).

Mio marito prima di sposarsi era molto considerato nella società mondana perché era sempre allegro, grande ballerino e organizzatore di feste. Così quando in gennaio al circolo ufficiali si organizzò la festa della Croce Rossa chiamarono lui per aiutare ad organizzare i balli e il ricevimento.

Io, che non avevo mai partecipato ad una organizzazione simile, non presi parte al lavoro cosiddetto, però poi arrivò la festa e fu un gran ballo, un grande avvenimento mondano. Tutte le autorità della Provincia e della zona erano lì, naturalmente più italiani e pochi di quelli residenti da prima, di origine austriaca, perché ancora non si era fatta l’azione di pacificazione che si fece poi dopo fra le due comunità. Mi fecero ballare abbastanza però solo quando ballava anche mio marito. Appena egli smetteva di ballare si faceva un vuoto intorno a me perché una giovane sposa doveva essere sempre a disposizione del marito.

Questo poi alla fine mi fece venire il cattivo umore perché io ero abituata nelle feste da ballo a ballare continuamente. Così mi misi seduta in un angolo e feci il muso a tutti.

Fra l’altro facemmo conoscenza con una signora molto simpatica.. Lei era di origine tedesca, il marito era un ufficiale italiano in pensione che era diventato sindaco di una cittadina vicino a Bolzano che si chiamava Appiano, perché la moglie, che era la sua seconda moglie, possedeva un castello in quel posto che si chiamava Kronhof. Dopo andammo molto spesso da questi amici nostri i quali facevano anche spesso dei ricevimenti nel loro castello e conobbi anche diversi vicini che avevano altri castelli nella zona, fra l’altro una signora australiana, anziana e molto simpatica, che si era trasferita in Italia e stava proprio accanto ai nostri amici. Per la prima volta in una casa vidi un appartamento o un modo di vivere senza camera da letto perché lei aveva tutti divani e tappeti in tutti i suoi salotti e diceva che dormiva una volta di qua e una volta di là perché non le piaceva avere una camera da letto fissa.

Il colonnello sindaco e la moglie Enrichetta avevano dei figli di primo letto e la figlia aveva proprio la mia età, 19 anni a quel tempo.

Feci amicizia allora anche con una signora fiorentina che aveva sposato un medico di Verona e non viveva a Firenze, però lì aveva molti parenti e amici. Il marito medico di questa signora si chiamava Cevalotto. Lei era molto più anziana di me, aveva quattro figli ancora abbastanza piccoli ed era molto simpatica. Tanti anni dopo, quando ci trasferimmo a Firenze, lei mi aiutò molto ad ambientarmi in questa nuova città presentandomi i suoi amici e parenti.

I miei genitori passarono quell’anno l’inverno a Bolzano per farmi compagnia. Ripartirono mi pare in marzo-aprile ma io allora avevo già abbastanza preso l’abitudine dell’andamento del nuovo paese e mi ero ambientata abbastanza bene.

Nella vita quotidiana non ho trovato grandi problemi. C’erano delle piccole cose che cambiavano e alle quali bisognava abituarsi.. Per esempio alla mattina mio marito si doveva alzare molto presto per andare in caserma. Andava via credo alle 7-7.30 di mattina ma io mi riaddormentavo tranquillamente senza alzarmi dal letto perché lui prendeva solo una tazza di caffè e andava via senza fare colazione. Io poi mi alzavo più tardi alle 9-9.30, facevo colazione per conto mio alla mia maniera; allora bevevo molto latte e anche ai pasti per l’abitudine del mio paese pasteggiavo a latte mentre mio marito beveva il vino. A me il vino a quei tempi non è che mi piacesse un gran che. Ogni tanto incominciavo a bere un bicchiere sempre di vino bianco anche allora e piano piano incominciai ad abituarmici e così dopo presi l’abitudine anch’io di pasteggiare a vino. La pastasciutta mi piaceva però non tanto col pomodoro perché trovavo che il pomodoro messo dappertutto ammazzava i sapori dei cibi e così la mangiavo al burro o al ragù. Come avevo già detto mio marito la trovava sempre un po’ troppo cotta fatta dalla nostra Maria ma io non avevo idea cosa fosse la pasta al dente. Piano piano imparai anche a mangiare gli spaghetti per bene rotolandoli sulla forchetta e così presi diverse abitudini italiane che mi piacevano e decisi che altre cose se non mi piacevano non le avrei accettate. Le giornate scorrevano lisce e tranquille. Io a quel tempo avevo una grande corrispondenza con parenti e amici, perciò scrivevo molte lettere, leggevo e poi mio marito, che era stato da ragazzo collezionista di francobolli, tirò fuori la sua collezione che era tutta in disordine e mi misi a riordinarla. A me piaceva molto perché anch’io da bambina avevo avuto una collezione di francobolli, perciò sapevo un po’ trattarli.

Poi, dopo qualche mese, rimasi incinta e cominciai a preparare il corredino; mi piaceva farlo tutto da me e così comprai un giornalino con i modelli e le misure delle camicine, di tutti i numeri di pannolini che si dovevano preparare perché allora non esistevano i pannolini da buttar via, bisognava farli di stoffa e c’erano da preparare diversi strati di stoffa di diversa pesantezza: leggeri all’interno, morbidi, senza orli a macchina, tutto doveva essere orlato a mano, perciò era un grande lavoro. Finché c’era la mia mamma anche le mi aiutava e così si preparò un grande corredo. Per esempio: si preparava le camicine di tre misure, tutte con cuciture speciali, morbide e, in ogni modo, di queste tre misure, la prima non l’ho mai adoperata perché i miei figlioli sono nati più grandi del solito e così dovetti sempre mettere loro subito la seconda misura di camicina.

 

 

Il trasferimento a Roma – aprile 1929

 

In quel periodo arrivò una notizia di servizio per mio marito; egli doveva fare un corso coloniale di sei mesi a Roma, siccome era già stato da ufficiale in Africa, in Eritrea e in Libia, era considerato ufficiale coloniale e doveva frequentare un corso di specializzazione che si teneva a Roma. Doveva incominciare in novembre e finire dopo sei mesi. La primavera dopo così decidemmo di andare a Roma per un periodo e anche i miei genitori vollero venire a passare l’inverno con noi.

Allora si andò a cercare casa a Roma e prendemmo in affitto un piano di una villa un po’ fuori città, sulla via Camilluccia che diventò dopo famosa per la villa che vi costruì Mussolini per Claretta Petacci e anche per la sede della Democrazia Cristiana. A quel tempo la via Camilluccia era una strada di campagna illuminata di notte e il tram di allora passava abbastanza vicino, ma per andare alla fermata del tram, bisognava camminare almeno per 500 metri. Il tram andava all’osservatorio di astrofisica che era in cima ad una collina che si chiama Monte Mario, che ora è un quartiere molto abitato di Roma e considerato una periferia molto vicina; allora sembrava di stare in campagna perché intorno alla casa c’era un bel giardino con alberi, un parco, poi di là c’erano tutti prati e vi pascolavano le pecore. Si vedevano queste pecore con i loro pastori che vivevano e dormivano in capanni di frasche e gli agnelli nascevano sui prati all’aperto.

La villa dove si andava ad abitare apparteneva al fratello di un cardinale, un professore di università che si chiamava Tacchi Venturi. A noi piaceva molto stare in campagna e quando si arrivò ci portammo dietro la nostra cuoca Maria. Era un primo piano, con tante stanze grandi, poi una scala portava su una grande terrazza sul tetto, dove c’era la cucina.

Andammo su con la Maria per farle vedere la cucina e lei si sedette su un panchetto e si mise a piangere, non si capiva perché. Dopo lei spiegò che la cucina era solo a carbone, perciò non c’era il gas e lei non era più abituata a lavorare su fornelli a carbone; le dava noia la cenere che si levava quando si sventolavano questi fornelli. Però dopo un po’ si calmò e per sei mesi accettò di lavorare in quella cucina primitiva. Si mise in testa un berrettone chiuso dall’elastico per salvarsi i capelli e si rimise a ridere.

Per fare la spesa bisognava andare giù nel quartiere Trionfale che era un quartiere molto popolare e la mia mamma si divertiva a venire a fare la spesa con noi perché si andava giù con l’automobile per il quale avevamo costruito un garage provvisorio nel parco della villa, e poi si camminava lungo le file del mercato con tutti gli uomini che vociavano e strillavano ad imbonire le loro merci. Soprattutto alla mamma piacevano quelli che vendevano i pesci salati: acciughe, sardine, tonno. Si faceva la spesa tutti insieme, naturalmente quando veniva anche mio marito, perché io non guidavo la macchina, così lui ci doveva portare giù e riportare su; per venire da soli senza di lui si camminava fino a prendere il tram e con questo si andava in città.

Una cosa per me interessante e inusuale era anche il rifornimento del vino. Mio padre e mio marito a tavola bevevano sempre vino e lentamente incominciai a bere un po’ di vino dei Castelli che piaceva molto a tutti.

Il vino veniva portato a quei tempi in città con dei grandi carretti; erano dei carri a due ruote, molto grandi, tirati da un mulo o da un cavallo e sopra questo carro venivano ammucchiati tanti piccoli barilotti di legno contenenti vino. Il carrettiere era vestito in modo speciale, aveva i pantaloni neri, la camicia bianca senza colletto, una fusciacca rossa in tinta e una giacca nera corta e un cappello nero a larghe falde. Allora noi quando volevamo rifornirci di vino si dava voce oppure si telefonava a questo carrettiere e lui arrivava con un grande carro. Caricava una o due botticelle di vino e veniva subito travasato nei fiaschi e così avevamo il servizio a domicilio.

Dalla villa, che aveva una bellissima veduta sulla città e sul Tevere che scorreva proprio ai piedi del Monte Mario, si vedeva la grande costruzione sportiva, che allora era in costruzione, che si chiamava Foro Mussolini, ora Foro Italico, con tutte le figure in marmo di tutti gli sport e in mezzo doveva sorgere un obelisco di un pezzo solo; ora questo obelisco ci sta mentre allora era ancora ancorato nel Tevere su una chiatta. Noi scendevamo il Monte Mario e a piedi arrivavamo giù per vedere questo obelisco enorme e anche per visitare le costruzioni del Foro Italico.

Più in là si vedevano tutti i campanili e le torri di Roma. Poi un giorno ci fu lo sposalizio del principe Umberto con Maria Josè del Belgio.

Io allora non potevo ancora scendere in città e solo la mia mamma, mio marito e mio padre andarono a delle manifestazioni. Io invece assistetti solo al carosello degli aerei che facevano le loro acrobazie sopra la città e mi divertii molto anche con questi.

 

 

La nascita di Romola – 15 dicembre 1929

 

Il 15 dicembre, nacque la mia prima bambina; si sperava che fossero gemelli, perché ero molto grossa e nel mio oroscopo mi era stata predetta la nascita di gemelli maschi.

A quei tempi tutte le nascite, in Italia, si facevano in casa, con la sola assistenza della levatrice, però i miei genitori non vollero avere tutto quel lavorio in casa e per essere più sicuri mi prenotarono un posto nella clinica di Sant’Anna, che era una clinica di maternità e ginecologia.

I miei genitori avevano portato con loro anche una bambinaia e, siccome non sapevo come trattare i bambini neonati, avevano fissato che per un anno questa sarebbe stata da noi. Era una conoscente nostra, una ragazza nobile dell’Estonia, la quale per lavorare aveva fatto il corso di puericultura in Germania, perciò era molto in gamba. Portava anche una divisa, un po’ come le crocerossine, solo che era verde con il grembiule e la cuffia bianca e per uscire aveva anche il cappotto verde e il velo verde, perciò era una cosa molto rara in Italia di trovare questa nurse per i bambini perché costava molto cara. Qualcuna faceva da nurse finta, senza la vera preparazione, semplicemente alla bambinaia mettevano un velo e la passavano per nurse. Però la nostra era proprio una diplomata e per segno del diploma portava una spilla d’argento con la figura di uno dei bambini fasciati di Della Robbia.

Molte persone a quei tempi ancora fasciavano i bambini e li portavano sempre in braccio. Le carrozzine non erano popolari perché anche quelle costavano care; ad ogni modo noi si comprò una carrozzina molto bellina.

Dopo la nascita della bambina, che poi era una sola e femmina e l’avevamo chiamata Romola per ricordare i gemelli Romolo e Remo che dovevano nascere. E così con questo nome un po’ strano la si portava in giro per la campagna. Romola è nata proprio il 15 dicembre, lo stesso giorno nel quale mi ero sposata l’anno prima, ed era una domenica perciò tutti dicevano che era una bambina fortunata perché nata sotto il segno del sole.

Nella clinica, a quei tempi, non esisteva la stanza per i bambini ed i bambini neonati, con una culla, stavano accanto al letto della mamma. Dopo tutto quel travaglio della nascita avevo voglia di dormire e la bambina urlava e strillava in continuazione e allora litigai con la monaca e dissi: “Io voglio che portiate via la bambina perché devo dormire”. La suora molto offesa la portò via e così io venni considerata una mamma indegna.

 

 

Il ritorno a Bolzano – primavera 1930

 

A primavera si tornò a Bolzano e lì si ricominciò la solita vita con in più la bambina e la bambinaia che mi facevano molta compagnia. La vita a Bolzano era abbastanza tranquilla e si viveva molto in casa, andavo a giocare a bridge in un circolo dove c’erano delle vecchie signore vedove di generali austriaci o alti funzionari di quel tempo. Ma avevo trovato anche una signora italiana di famiglia fiorentina, moglie di un medico, che giocava a bridge, e così trovai anche un gruppo di persone che venivano a casa nostra a giocare a bridge.

In quel tempo Bolzano era diventata molto importante perché c’era la politica dell’amicizia tra Austria e Italia al tempo del cancelliere Dollfuss che Mussolini diceva che era suo amico.

Così come comandante del reggimento mandarono un cugino del re, il Duca di Pistoia che aveva una moglie straniera, la principessa di Ahrenberg e le persone che venivano destinate a Bolzano erano molto scelte.

Avevamo fatto un gruppetto di amicizie con degli ufficiali superiori e c’era tra di loro un solo tenente più giovane che aveva la moglie di qualche anno meno di me. Questi Lucarelli erano di Torino ed è la sola signora di quel tempo che ancora vive a Torino come vedova e con la quale ogni tanto ci scambiamo ancora delle lettere.

Si rimase a Bolzano; però, per sfuggire dal caldo di giorno, noi andavamo con la funivia sulla montagna che si chiama il Colle e la bambinaia Annie ed io con la carrozzina con Romola dentro, caricando una specie di pic-nic nel carrozzina salivamo sulla cabina che portava circa dieci persone. Noi andavamo nella cabina, la carrozzina con le provviste veniva appesa sotto la cabina e sbarcando di sopra la staccavano e noi andavamo nel bosco a trovarci un posto tranquillo. Così tutti i giorni della settimana si andava su e mio marito invece con il reggimento andava a fare esercitazioni nei campi fuori e lui veniva a casa soltanto alla domenica.

 

 

In Estonia – estate 1931

 

L’anno dopo, nel 1931, d’estate si andò in Estonia perché i miei genitori erano rimasti lì e d’estate si stava proprio bene.

L’Estonia era una Repubblica indipendente in condizioni abbastanza floride e buone; c’era tanto lavoro e la gente stava bene.

Così si andò per tre mesi laggiù prendendo il treno e naturalmente, per attraversare tutta l’Europa fino al Mar Baltico, si fece sosta a Berlino nella pensione che stava nella casa che allora mio padre possedeva a Berlino. E’ stato un bel viaggio che durò più di quattro giorni.

A Stettino si prese la nave e dopo due giorni di navigazione si sbarcò a Tallin.

Andammo a casa dei nonni e lì si stette molto bene.

Romola dopo si ricordava della tappezzeria della stanza che avevano dato a lei e alla bambinaia perché era tappezzata con un disegno di pappagalli rossi su sfondo bianco.

La stanza era la camera delle donne di servizio che per l’occasione furono sloggiate e mandate a dormire in soffitta, ma era una bella stanza con il suo gabinetto e accanto il bagno.

 

 

La nascita di Isabella – 29 aprile 1932

 

Il 29 aprile 1932 nacque la mia seconda bambina Isabella.

Quello fu un evento più difficile perché dopo la nascita mi venne una gran cistite infettiva, la quale si buttò sulla gamba e mi venne la prima flebite alla gamba sinistra e fu curata allora in modo provvisorio perché non c’erano allora molte medicine e così la mia gamba è rimasta da allora sempre più grossa; poi ci sono state delle altre malattie che me l’hanno sciupata di più, e per questo ho una zampa d’elefante come gamba sinistra.

 

 

In Estonia – estate 1933

 

Già quando siamo tornate dall’Estonia la prima volta non avevo più la bambinaia del mio paese ma una ragazza di Bolzano che si chiamava Ghita e quella la portai anche nel secondo viaggio in Estonia nel 1933 quando andai di nuovo per tre mesi. Questa volta per un periodo di un mese ci venne anche mio marito, il quale non c’era mai stato, e gli piacque molto viaggiare nei paesi nordici. Egli andò anche in Finlandia e, siccome da noi in estate c’è sempre la luce, non si accendono neanche i lampioni per le strade per un po’ di mesi.

Allora per mio marito in Finlandia l’Ambasciata Italiana organizzò una gita di tutta la notte in barca da un’isola all’altra, da un ristorante all’altro che lì sono aperti tutta la notte.

 

 

Da Bolzano a Firenze – 1934

 

A Bolzano c’era una vita mondana abbastanza intensa, c’erano molte riunioni, feste, teatro. Qualche volta la sera noi si andava anche a tre feste la stessa serata. Poi venivano anche dei personaggi che venivano ospitati dalla Prefettura e dal Circolo Ufficiali e si facevano dei ricevimenti per loro. Così io ho incontrato a Bolzano per una sera anche Pirandello, Marconi, Marinetti che presentava il suo famoso libro di metallo, che ho tenuto in mano anche io.

 

Mio marito era un vero fiorentino perciò gli sarebbe sempre piaciuto stare a Firenze, e finalmente nel 1934 ebbe il trasferimento a Firenze.

Tornò all’istituto Geografico Militare dove era già stato da capitano. Così ci trasferimmo a Firenze, cercammo una casa che io volevo molto grande. Era difficile trovarne con riscaldamento perché a Firenze in quegli anni, la maggior parte della gente non aveva riscaldamento, al massimo aveva una stufa in una stanza e forse qualche volta nel bagno. Invece trovammo un appartamento a due piani in Viale Volta anche con il garage perché avevamo anche l’automobile.

A Firenze io conobbi la famiglia della signora Cimalotto che stava in centro in un vecchio palazzo. Erano i discendenti della famiglia Pepi che stavano nel palazzo Pepi, nella omonima strada vicino a Santa Croce e loro mi fecero conoscere qualche altra persona ma io stavo molto sola, in auto andavo poco perché non sapevo cosa fare.

Mio marito arrivava tardi a casa perché lui aveva sempre detto di avere tanti amici a Firenze, però io questi amici non li vidi mai. Perciò ebbi l’impressione che Firenze fosse una città meridionale molto tradizionale.

Gli uomini si riunivano al caffè dopo il lavoro e restavano per la strada a guardar passare le signore e facevano i commenti su quelli che passavano.

Per arrivare a casa nostra dal centro bisognava prendere il tram di Fiesole che cambiava tariffa proprio una fermata prima di arrivare a casa dove abitavo io e, per risparmiare, scendeva alla fermata prima e faceva due passi per arrivare a casa nostra, perché allora tutte le persone erano molto impegnate a risparmiare perché di pensioni sociali o simili non c’era ancora l’ombra e bisognava raccogliere un po’ di soldi di capitale per la vecchiaia.

Certo noi ufficiali, impiegati statali avevamo il privilegio di avere poi una pensione perciò eravamo già delle persone molto più sicure della nostra vita.

A quei tempi la vita media delle persone si aggirava circa sui 50-55 anni perché non c’era la sanità pubblica, il medico bisognava pagarlo e non tutti avevano i soldi, sicché lo si chiamava quando si era quasi in fin di vita. All’ospedale ci andavano proprio i più poveri che non avevano i soldi per pagarsi le cure in casa, ma soprattutto la mortalità infantile era molto alta in campagna dove nascevano tanti bambini ed erano la ricchezza delle persone di allora, anzi il regime fascista faceva propaganda di avere tanti figli e dopo un certo numero di figli, credo 7 o 8, non si pagavano più le tasse perciò le persone che potevano avevano tanti figli.

Alla sera, con mio marito, si facevano delle passeggiate nella zona periferica dove si stava e si arrivava fino al Campo di Marte dove non c’era ancora lo stadio.

Nel cosiddetto campo Dux, in estate, c’erano tanti ragazzi che facevano delle esercitazioni sportive e militari proprio sul posto dove dopo venne costruito il grande stadio che forse allora era già in costruzione.

Piano piano cominciai a trovare persone che giocavano a bridge e allora, dopo cena, andavamo fuori a giocare. Mio marito non giocava però trovava sempre qualcuno con cui chiacchierare. Di giorno però stavo molto in casa sola con le bambine e la mia preoccupazione principale era quella di cucire. Io mi sono sempre divertita a cucire vestiti per me e le bambine, così avevo abbastanza da fare. Una volta disfeci anche la mia pelliccia grigia per fare due pellicce: una per la Romola e una per l’Isabella.

 

La guerra d’Africa – 1935

 

Alla fine dell’anno 1935 cominciò la guerra d’Africa. Le truppe italiane partirono dalla colonia dell’Eritrea per conquistare tutta l’Etiopia. Mio marito fu trasferito in Africa con l’Istituto Geografico, però, siccome io ero alla fine della gravidanza, lui ebbe una licenza fino a quando fosse nato il bambino.

Il bambino nacque il 30 gennaio del ’36; era un maschietto e lo chiamammo Ruggero, però, siccome era il più piccolo di tutti, subito ebbe il soprannome di Ciccetto e quello gli è rimasto per sempre.

Mio marito dopo la nascita andò subito via e l’Istituto Geografico Militare era situato ad Adua che era la città conquistata per prima.

Le carte geografiche dell’Etiopia non esistevano perciò una grande equipe dell’Istituto Geografico Militare si mise a rilevare le carte.

Io avevo l’idea di raggiungere mio marito in Africa quando fosse finita la guerra, ma questa durò parecchio tempo fino al 1937, allora finì con la conquista di Addis Abeba e tutta l’Etiopia fu conquistata dagli italiani.

Allora ci andarono molte ditte italiane importanti di costruzioni e di trasporti perché costruivano strade, case e anche palazzi importanti che non c’erano.

Mio marito ebbe una proposta dalla ditta Gondrand di istituire una linea di trasporto con autobus da Massaua fino ad Addis Abeba. Siccome era una cosa molto conveniente lui prese un anno di aspettativa dal ministero della guerra e andò a fare questo lavoro. Prima dovevano seguire le piste che c’erano e istituire dei posti di pernottamento per i passeggeri perché il tratto di Massaua fino ad Addis Abeba si faceva in cinque tappe di un giorno ognuna. Le strade erano buone in Eritrea ma appena fuori c’erano delle strade impossibili così questi poveri autobus andavano fin lì e al ritorno tornavano con tutte le gomme a pezzi, consumate per le pietre delle piste. In ogni modo sembrava che tutto il paese fosse pacificato e incominciarono ad andarci anche le famiglie degli impiegati e degli imprenditori.

Io che ci tenevo a trasferirmi laggiù lo dissi a mio marito e lui dalla ditta Gondrand ebbe la possibilità di ospitare la famiglia.

C’era fuori della città di Asmara un enorme campo Gondrand nel quale c’era anche un’infermeria, un ospedale da campo che originariamente consisteva in due baracche di eternit. Poi, finita la guerra, questo ospedale venne diminuito e concentrato in una sola baracca. La seconda la diedero a mio marito come alloggio, allora io potei andare laggiù con i bambini ed ero molto contenta di andarci.

 

 

Il trasferimento in Africa – 1937

 

Prima di partire, nell’estate del 1936, facemmo ancora una bella vacanza in montagna, sulle Dolomiti , in un posto che mi interessava e che avevo sentito lodare molto per clima e per ambiente. Si chiamava S. Genesio; è su un’altura vicino a Bolzano e a quei tempi ci si arrivava solo su una mulattiera molto ripida e stavano costruendo una funivia ma c’era ancora tempo prima che venisse utilizzata. Così noi si fissò un albergo sull’altopiano e si andò un giorno a Bolzano ad aspettare una bella giornata.

Ci trasferimmo lì con dei cavalli da soma che avevamo preso in affitto e sono i cavalli di razza Avellinese che usano in montagna per trasportare persone e merci: le persone naturalmente in sella e le merci in due grandi ceste che sono attaccate di qua e di là del cavallo. Noi si prese in affitto quattro cavalli. Su uno cavalcavo io da sola, sul secondo cavalcava la bambinaia con la Romola davanti a sé in sella, su un altro cavallo misero tutte le valigie e sul quarto nelle due ceste misero i bambini più piccoli, Isabella e Ciccetto. E così si andò su a S. Genesio dove passammo una bellissima estate al fresco facendo delle passeggiate sui prati.

A me è rimasto un buonissimo ricordo di quei posti che ora chissà come saranno diventati affollati di turisti con grandi alberghi. Ma allora c’era la campagna tranquilla, i boschi e i prati intatti.

Per partire per l’Africa si dovette smantellare l’appartamento che avevamo e lasciare in un deposito la maggior parte dei mobili. Io mi ero informata da signore che erano già state laggiù per sapere cosa importava portarsi dietro e mi avevano detto di portare uno specchio grande perché lì non se ne trovavano. Allora della mia camera da letto feci imballare solo la toilette con specchio grande e due mobilini accanto. Per sbaglio mi imballarono anche il letto grande così quando arrivai laggiù il letto grande e la specchiera li misi nel vano più grande della baracca e ci piazzai anche il lettino di Ciccetto mentre le bambine dormivano nella stanza più grande.

Questa baracca era lunga e stretta. C’erano finestre di qua e di là e l’interno era diviso solo con dei tramezzi di tavole di legno. C’era dentro qualche mobile rozzo ma non mi bastava. La prima volta abolimmo la camera da letto e per dormire si misero due divani che di giorno diventavano salotto in quella parte della baracca. In fondo l’ultima stanza era divisa ancora in due per la lunghezza. In una parte c’era il tavolo per mangiare e una specie di scaffale per le stoviglie e nell’altra, lunga lunga, era sistemata la cucina; cioè c’era un gran banco coperto di metallo di zinco dove stavano i “primus” (erano gli apparecchi dove si cucinava ed erano dei piccoli aggeggi che si accendevano con il petrolio; ne avevamo quattro in fila e così si cucinava lì su questi primus). In fondo a quella stessa stanza c’era il letto della donna di servizio e la porta per uscire era direttamente in fondo alla stanza da pranzo. All’altro lato all’inizio si entrava in un piccolo vano come vestibolo e lì dormiva il ragazzo negro che ci faceva da servitore. Il bagno era abbastanza attrezzato e l’acqua veniva da un piccolo lago vicino; naturalmente non si poteva bere. Si beveva sempre l’acqua minerale e quando c’era la stagione delle piogge io che facevo fare tutte le sere il bagno ai bambini nella vasca, vedendo arrivare dell’acqua piuttosto scura, di colore marrone, guardavo i bambini e pensavo: “Saranno più sudici ora o verranno più sudici dopo aver fatto il bagno?”. Alla fine decidevo sempre che erano più sudici in quel momento e li buttavo nell’acqua.

La donna di servizio che avevo portato con me non era la bambinaia che avevo prima perché lei non voleva andare laggiù, così trovai una ragazza molto carina, simpatica che si era decisa a venire con noi e rimase quasi tutto il tempo con noi. Dopo si sposò perché lì le donne erano rare e trovavano subito dei buoni mariti.

All’inizio avevo ancora l’attendente militare, un ascaro in divisa col “tarbusc” rosso e i miei figlioli non si erano impressionati nel vedere per casa una persona di colore, anzi forse sembrava loro anche interessante; anche per strada non facevano nessun caso alla popolazione indigena. Era tutto come naturale, si vede che non avevano nessun pregiudizio le figliole. Quando l’ascaro ci lasciò, prendemmo un servitore indigeno che parlava benissimo l’italiano e anche il francese perché era stato allevato dai missionari francesi di Dessié.

Inoltre avevamo un uomo di mezza età che ci veniva a lavare la biancheria e anche la biancheria a forza di lavarla con l’acqua un po’ colorata dopo era diventata rosa perché la terra laggiù è un pochino rossa, contiene manganese e ferro perciò tinge un po’. E così eravamo ben serviti lì e la vita si svolgeva abbastanza tranquilla.

Vicino c’erano le case dove abitavano due famiglie di ufficiali di aviazione i quali avevano ognuno un cavallo perché una signora e l’altro ufficiale andavano spesso a cavallo. Anche a me piaceva andare a cavallo e ogni tanto mi prestavano uno di questi cavalli; era uno grigio piuttosto robusto, era un po’ strano perché aveva avuto un incidente e aveva sbattuto il muso contro il camion e da allora aveva paura dei camion. Inoltre non gli piacevano i cammelli perché si vede che avevano un odore un po’ forte così quando io andavo in giro per la campagna da sola dovevo stare sulle strade sterrate dove non passavano i camion e quando incontravo una carovana di cammelli mi buttavo attraverso i campi senza sentiero perché se no avevo paura che il cavallo si imbizzarrisse.

Quando io andavo a cavallo e Ciccetto mi vedeva faceva i capricci perché voleva venire anche lui sul cavallo. Ogni tanto io lo prendevo me lo mettevo davanti sulla sella e andavo piano piano, al passo naturalmente. Allora lui era felice e contento e quando scendevo lui non voleva più scendere. Io ho una fotografia di lui sul grande cavallo.

Non ci preoccupavamo per le scuole per i bambini. Il primo anno nessuno andò a scuola, giocavano felici con i bambini dei vicini e siccome c’era lì vicino una scuola dove di mattina andavano i bambini indigeni e al pomeriggio quelli bianchi allora iscrissi Ciccetto laggiù; erano delle suore che tenevano questi bambini piccoli e li facevano giocare. Accompagnavo Ciccetto alla scuola e c’era un’altra signora che accompagnava una bambina supergiù della stessa età e andava sempre a riprenderla. Con questa signora feci amicizia ed è rimasta amica anche ora dopo quasi sessant’anni. Si chiamava Carmen Rubini e stava in una casetta tutta sua molto elegante per quei posti. Suo marito era l’ingegnere delle miniere d’oro e lei aveva prima solo questa bambina. La bambina era Mariateresa che ora vive a Padova ed è già nonna perché una sua figlia ha già due bambini. Carmen dopo rimase incinta e le nacque un maschietto e si chiamò Domenico. Dopo un anno che eravamo già lì, le cose civili si assestavano piano piano, trovammo anche una maestra vicino a noi dove andò poi a scuola la Romola perché la scuola pubblica era un pochino troppo lontana e non volevo che andasse da sola così lontano. Invece l’Isabella fece vacanza in pieno perché era piccolina e non aveva niente da perdere.

Nella baracca accanto a noi c’era rimasto un infermiere nell’ambulatorio che era rimasto dell’ospedale. Egli aveva molti clienti da fuori non solo quelli che lavoravano da Gondrand. Soprattutto venivano spesso anche delle persone del posto, degli indigeni e quando aveva molti clienti chiamava me per aiutare così anche io mi misi a fare l’infermiera e avevo imparato bene a medicare le cosiddette piaghe tropicali che sono delle infezioni molto noiose che vengono agli europei per il clima e per la diversa alimentazione che hanno lì. Bisognava in questo caso tagliare tutta la carne morta della piaga, poi disinfettarla con lo steridrolo (altri disinfettanti sono troppo forti per le pelli bianche) e poi riempire il buco della piaga con la pomata sulfamidica. Io riuscivo molto bene in questo lavoro e dopo che chiusero l’ambulatorio continuai a fare io l’infermiera per un anno e mezzo.

Soprattutto venivano tanti indigeni con certi tagli e infezioni che non mi sentivo quasi neanche di fare; li volevo mandare all’ospedale invece loro non volevano andare e dicevano: “Ospedale morire, signora guarire” e così dovetti mettermi lì a cucire queste carni scure. Prendevo un grosso ago infilato con del filo da imbastire, lo passavo nella tintura di iodio e cucivo quello che potevo, poi disinfettavo. Usavo molta tintura di iodio che sulla pelle degli indigeni andava bene. Anche per gli occhi c’erano molti problemi perché con le mosche le infezioni andavano da uno all’altro. Le mosche cercavano sempre di entrare negli occhi della gente e soprattutto dei bambini che non riuscivano a scacciarle. Veniva loro un’infezione tremenda e bisognava poi disinfettarli con del protargolo che è una soluzione d’argento molto forte e che brucia, però era l’unica cosa che salvava gli occhi da cose peggiori.

Uno degli abitanti delle case dell’aviazione era capitano medico e aveva due bambini: una femmina e un maschio che giocavano anche con i nostri e soprattutto si azzuffavano. La bambina prese quel male agli occhi e non si faceva medicare neanche dal padre cosicchè le era venuta addirittura una lesione alla cornea. Egli allora portò la bambina da me e si fece medicare da me e la bambina fortunatamente guarì. In quella zona c’erano anche dei lebbrosi ma quelli non venivano a farsi medicare perché credo non ci fosse nessuna medicina, però venivano a mendicare e c’era uno che veniva spesso vicino alla nostra baracca. Veniva piano piano e diceva: “Meschin meschin” e allora gli si dava una ciotola da mangiare e qualche soldo, senza toccarlo.

Mio marito continuava ad occuparsi della linea di trasporto passeggeri di Addis Abeba e avevano già messo su dei posti dove i passeggeri passavano nella notte e mangiavano nelle tappe e uno di questi, più grande, era nel paese di Dessié.

Un giorno mio marito disse a me e alla Romola di andare con lui fin laggiù; così si prese l’autobus e si arrivò a Dessiè, a questo campeggio o come lo si vuol chiamare. Vicino al campeggio c’era il paesino, un paesino piccolo dove ogni settimana c’era il mercato e tutte le persone dei dintorni andavano al mercato per fare acquisti.

Un giorno si andò al mercato anche noi, mio marito, io e la Romola, accompagnati da due carabinieri con i cavalli. Quando si arrivò lì le donne si meravigliarono nel vedere la Romola perché non avevano mai visto una bambina bianca; allora le si affollavano intorno, le toccavano i capelli, le alzavano la sottana per vedere se anche sotto era bianca così che i carabinieri la presero e la misero sul cavallo per salvarla da queste mani interessate. E tutti a meravigliarsi e a guardare.

La Romola rimase lì anche di più per far compagnia al suo papà. Io tornai ad Asmara e la lasciai lì. Lì c’era anche una scuola con un maestro che insegnava la mattina agli indigeni, ai ragazzini e di pomeriggio solo alla Romola e lei aveva un ragazzino che le portava i libri fino alla scuola perché non doveva portarli da sé.

Qualche tempo dopo io andai con mio marito sempre con l’autobus fino ad Addis Abeba. Si fecero le due tappe necessarie e il terzo giorno si arrivò ad Addis Abeba e io mi interessai molto di questa città, molto strana che è situata in un bosco di eucalipti in mezzo al verde. Le case sono tutte in mezzo agli alberi, solo nel centro ci sono dei palazzi un po’ grandi vicini uno all’altro. Addis Abeba ha anche delle sorgenti calde. L’acqua calda che si adoperava nelle case veniva portata con delle piccole botti ed era già calda quando arrivava nelle case.

Io mi fermai poco qui perché dovetti tornare dalle bambine. In ogni modo è stata anche questa un’esperienza molto interessante per me perché per arrivare ad Addis Abeba bisognava passare diverse catene di montagne alte fino a 3000 metri dove c’era una vegetazione molto rigogliosa e molto diversa da quella europea.

Gli animali pericolosi non li abbiamo mai incontrati. Si sentivano ululare le iene anche dalla nostra baracca di Asmara, soprattutto in questi campeggi, dove i passeggeri dormivano, le iene venivano più vicino. Una volta, quando io ero a Dessié c’era nell’autobus una signora che alla sera si era affacciata alla finestra della camera dove dormiva e aveva visto degli occhi verdi brillanti proprio sotto. Si era tanto spaventata che si mise a gridare. Era la iena che veniva a cercare le spazzature. Allora questa poveretta la presi nella mia camera e la feci dormire lì.

La Romola dormiva in un’altra stanza e le regalarono una piccola gazzella chiamata Dic Dic la quale veniva però da un livello più basso della catena dell’Etiopia, dove faceva caldo, perciò sentiva freddo sull’altopiano e Romola la faceva dormire sotto il suo letto, facendo con la coperta una specie di tenda. Una volta quella povera bestia non fece in tempo ad entrare, rimase fuori la notte e morì di freddo, poverina. Romola era molto triste e se la ricorda ancora la sua piccola Dic Dic.

In casa invece avevamo una gabbia per uccelli. Prima ci portarono degli uccelli un pochino più grandi e rimasero nella gabbia, poi ci portarono dei bengalini, che sono degli uccelli molto piccini, che scappavano sempre in mezzo tra le stecche e così dopo un po’ smisi di catturarli e lasciai tutti gli uccelli liberi.

Invece fu bello quando ci portarono un camaleonte molto grande che girava poi per la casa. Era di colore un po’ come la terra, bruno e grigio-bruno. Solo quando si arrabbiava diventava rosso e soffiava e le bambine, naturalmente, si divertivano a farlo arrabbiare. Un nostro amico, venuto in visita da noi, vide il camaleonte e gli piacque tanto che glielo abbiamo dovuto regalare. Allora tutto contento nella gabbia degli uccelli vuota mise il camaleonte e se lo portò via.

Un giorno ci portarono una capra che era incinta così quando nacque il capretto noi abbiamo avuto per un po’ di tempo il latte fresco della nostra capretta perché altrimenti non si poteva trovare il latte buono fresco e si usava il latte in scatola sempre, quello evaporato che era molto buono. Il capretto crebbe un po’ e dopo un mese l’abbiamo mangiato, invece la capra rimase con noi fin quasi in ultimo.

Quando si doveva ripartire naturalmente anche la capra fu sacrificata e ci portammo la sua pelle che mi servì come scendiletto per tanti anni. Anche altre pelli avevo comprato che servivano da scendiletto, di gazzelle e poi una grande pelle di zebra che tenemmo sotto il tavolo da pranzo come tappeto. Inoltre comprai delle pelli di scimmie “goresi”, quelle bianche e nere e le portai in Italia e le feci conciare qui e ne feci una coperta per il letto che ho ancora.

Siccome sapevano che a mio marito piacevano gli oggetti di artigianato o di uso indigeno ci portavano tante cose: dei recipienti di pelle per tenere i liquidi e poi anche asce, sciabole, lance e ho ancora una bella collezione di queste cose. Alcune le tengo sempre al muro per farle vedere, le altre purtroppo in una cassa dove cominciano ad arrugginire e non servono più a nulla perché ce ne sono tante in tanti musei e nessuno si interessa più di collezionare armi africane.

Le stagioni in quella parte dell’Africa centro-orientale non erano come sono da noi in Italia; esistevano solo due stagioni: la secca e le piogge. La stagione secca andava da ottobre a marzo. In quel periodo c’era sempre il cielo sereno e un sole molto forte e si stava caldi di giorno, però di notte la temperatura si abbassava perché ad Asmara, dove noi si stava a vivere, eravamo a 2400 metri di altitudine, così qualche volta di notte nella stanza dei bambini accendevo una piccola stufa elettrica che bastava per tenere un pochino di tepore nella stanza. Durante la stagione secca si stava sempre fuori, si viveva molto all’aperto poi a maggio venivano le piccole piogge. Le piogge laggiù sono a ore fisse: di giorno la mattina fa un gran caldo, poi, dopo mezzogiorno si comincia a vedere dei grossi nuvoloni e dopo le 2 giù l’acqua a catinelle. Bisogna chiudersi in camera perché non c’è ombrello o impermeabile che salvi dall’acqua così forte. Questo dura circa due ore e qualche volta anche di più. In ogni modo verso sera dopo le 5 le nuvole vanno via, esce il sole di nuovo che poi tramonta dopo le 6. Eravamo vicini all’equatore così le giornate erano sempre lunghe uguali. Il sole si alzava alle 6 e tramontava alle 6 di pomeriggio. Era molto comodo perché si sapeva regolare bene tutte le cose.

Poi, dopo le piogge di aprile che a volte duravano fino a maggio, c’era un intervallo durante il quale si svegliavano tutte le piante, c’era un rigoglio di crescita in tutti gli alberi; anche le piante che si mettevano in giardino e nell’orto crescevano in modo straordinario. Noi avevamo delle piante di pomodori fuori della baracca e si arrampicavano fin sul tetto e nell’orto dell’Aeronautica che era vicino a noi le bietole diventavano alte come cespugli. E così tutte le cose.

C’era il momento della raccolta nella campagna dove si coltivava mais e “durac” che è una specie di miglio. In ogni modo tutti i campi erano verdi e fiorivano dei gigli selvatici che erano molto belli e profumati.

Dopo questo periodo rigoglioso arrivavano le grandi piogge a settembre fino a metà ottobre e c’era di nuovo tanta acqua dal cielo. Ma tutte le persone si sapevano regolare e anche i bambini dovevano stare in casa nelle ore che pioveva. Nel periodo di intervallo tra le due piogge noi mangiavamo molta verdura fresca perché negli altri mesi doveva arrivare dall’Italia o da altri paesi più a nord oppure c’erano dei piccoli orti dove si cercava di innaffiare. Noi mangiavamo molte di quelle bietole che crescevano nell’orto dell’aeronautica ed erano buonissime; noi le chiamavamo le coste: c’era la parte verde che si preparava in un certo modo, poi i gambi che erano molto buoni fritti o saltati in padella. C’era anche l’insalata ma quella bisognava lavarla nell’acqua dove si scioglieva qualche pasticca di steridrolo per disinfettarla perché c’era sempre la probabilità di prendere qualche malattia perché c’erano dei germi o batteri che si nascondevano nella terra.

Di carne si mangiava molto pollo perché ognuno aveva un pollaio dove attingere spesso. Anche noi avevamo un pollaio fuori della casa fatto di assi di legno e la parte davanti era solo una rete metallica, così quando si vedeva una gallina che cominciava a chiocciare, mettevamo le uova in un gran cesto e la chioccia sopra in un angolo della nostra stanza da pranzo dove la gallina stava tranquilla senza curarsi del via vai delle persone. Di giorno ogni tanto faceva una passeggiata fuori ma di notte non si muoveva, aspettava solo che la prima persona che si alzava, aprisse la porta per fare una corsa fuori a fare i suoi bisognini. Non sporcava mai in casa perché questo era il suo nido. Le galline africane sono un po’ più piccole delle nostre e anche le uova sono più piccole, così nella mia raccolta di uova colorate ne ho qualcuna di misura più piccola e so che sono quelle africane.

Si mangiava anche molta cacciagione: faraone, pernici e lepri perché tutti ce le portavano. C’era molto amore per la caccia soprattutto fra gli ufficiali. Così eravamo sempre ben serviti.

Io che non sapevo cucinare, l’unica cosa che facevo era arrostire la lepre perché nel mio paese avevano una buona ricetta per l’arrosto, così io la facevo su un fornello fuori che era fatto su una grande latta di benzina sulla quale, in cima, avevano messo un fornello a carbone e sui carboni io arrostivo questa lepre che, dopo averla fatta scuoiare, le versavo sopra dell’acqua bollente perché dicono che la lepre ha tante pelli, così con l’acqua bollente si levavano le ultime pelli. Poi con un ago speciale si metteva del lardo dentro per farla più morbida e profumata e dopo sulle braci l’arrostivo intera e piaceva molto.

La carne di manzo era molto dura perché le bestie che ammazzavano lì erano piuttosto striminzite e rinsecchite. L’unica parte possibile era il filetto ma era molto richiesto da tutti e non si trovava sempre. Invece compravamo spesso del cervello perché siccome tanto i mussulmani che i cristiani copti per ragioni di religione non mangiavano le interiora delle bestie , così quelle erano sempre reperibili.

Si beveva solo acqua minerale di Ciampino che arrivava per via aerea all’aeroporto in cassette, così si compravano le cassette intere e si beveva quest’acqua quando si voleva. Il latte invece si consumava quello in lattine, latte evaporato perché quello del posto era impossibile berlo. Il caffè si beveva solo il caffè vero perché si faceva lì e poi faceva anche bene perché tirava su tutti quelli che abitavano nelle altitudini di più di 2000 metri. Siccome a me il caffè non piaceva, prima di venire in Africa avevo fatto l’allenamento: avevo incominciato a prendere una tazzina di caffè con quattro zollette di zucchero per ammazzare il sapore del caffè, poi piano piano ho ridotto a tre e in ultimo a due. Invece laggiù si beveva col latte così non era tanto forte il sapore del caffè. Anche i bambini bevevano solo il caffè vero perché era utile anche per loro.

Per la prima colazione noi mangiavamo molti panettoni che arrivavano dall’Italia, cartoni tondi protetti contro il caldo ed erano sempre freschi quando arrivavano.

Il pane si poteva comprare anche buono perché lì lo facevano tutti i giorni.

Il burro che arrivava in scatole era mangiabile così come arrivava. Allora dopo un po’ ci fu una ditta che mise su un laboratorio dove veniva ripulito il burro e lì si poteva comprare anche fresco ed era buono da mangiare. Però dopo qualche giorno non era più buono di nuovo perciò se ne faceva pochissimo uso e si cucinava sempre con l’olio.

Per Pasqua noi si tingevano le uova alla mia maniera tradizionale con dei pezzi di carta colorata e bucce di cipolla. Così non volli abbandonare neanche la tradizione dell’albero di Natale. Era un problema trovare un albero adatto perché naturalmente in Africa non esistevano gli abeti e cerca cerca trovammo una specie di cipresso sempre verde naturalmente che però aveva i rami all’insù invece che all’ingiù, ad ogni modo si poté fare qualche cosa perché io prudentemente avevo portato in una scatola le palline colorate, i portacandele e le candele da mettere sull’albero. E così si fece un bellissimo decoro nella stanza da pranzo e tutto intorno venivano a vedere questo albero di Natale perché a quel tempo in Italia non usava fare l’albero. Si usava il Presepio e poi nessuno faceva dei regali per Natale; solo per la Befana ai bambini si mettevano i dolci nella calza e nelle case più ricche si regalavano piccoli giocattoli. Il grande festeggiamento per Natale era solo la messa di mezzanotte e il pranzo di famiglia il giorno di Natale.

 

 

La tragedia di Ciccetto – ottobre 1938

 

Purtroppo verso la fine del secondo anno che si stava in Africa successe la più grande tragedia ed era la morte di Ciccetto. Successe in autunno nell’ottobre del 1938.

La mia figliola Isabella si era ammalata di una tremenda diarrea, era una cosa molto dolorosa per lei e poi aveva delle scariche sanguinolenti ogni momento. Io dovevo stare accanto a lei continuamente.

Un giorno la Romola che aveva fatto amicizia con altre bambine voleva andare a fare una passeggiata fuori e io non potevo star dietro a Ciccetto. Lui si mise a fare i capricci e voleva andare con loro.

Mio marito che voleva star tranquillo in casa disse di mandarlo con le bambine.

Si allontanavano per una passeggiata al Forte Baldissera che era vicino a casa nostra. Purtroppo dopo un’ora la mamma dell’altra bambina riportò Ciccetto con una gamba rotta. In taxi lo portò a casa e la gamba era tutta gonfia. Io che non potevo muovermi lasciai che mio marito portasse il bambino all’ospedale e lì si fece il primo grande sbaglio. Si portò all’ospedale civile e se fosse stato portato all’ospedale militare penso che l’avrebbero curato meglio perché noi conoscevano tutti i dottori che erano lì, invece all’ospedale civile essendo una domenica c’erano pochissimi medici. C’era il pediatra però lui mise il bambino in un letto con la doccia per tenere ferma la gamba poi tornò a casa mia per visitare Isabella e le trovò un’infezione amebica. La prima volta vidi che la medicina di allora, che era l’enterovioformio, era molto efficiente perciò in qualche giorno Isabella migliorò e stette di nuovo abbastanza bene.

Invece il bambino all’ospedale per non sentir male si vede aveva adagiato la sua gamba in maniera strana tutta storta in questa doccia. Lo trovai la mattina dopo piuttosto calmo e tranquillo e lo ingessarono subito senza fare una radiografia: Così dopo, quando gli levarono il gesso, dopo diciassette giorni io insistetti a fare una radiografia e venne fuori che l’osso, invece di attaccarsi dritto si era soprammesso e tutta la gamba si era raccorciata di tre centimetri. Il bambino rimase zoppo. Quello mi dispiacque molto e anche a mio marito e decidemmo di portare Ciccetto in Italia per farlo vedere ed eventualmente rimettergli a posto la gamba. Io a novembre partii con il bambino, venni a Firenze dove allora erano venuti a vivere i miei genitori nella nostra casa nei viali dei colli. Allora io andai dai miei genitori e portai il bambino nella clinica ortopedica del professor Palagi il quale era un buon conoscente mio e lui tenne il bambino in osservazione una settimana, sembrava un bambino tutto sano, tutto a posto e decise di operarlo.

Lo operò il 23 novembre del ’38 e quando arrivai la mattina in ospedale trovai che il bambino aveva avuto durante l’operazione un collasso e cercavano di tirarlo su e mantenere il suo piccolo cuore. Purtroppo non riuscivano e dopo un’ora un altro collasso lo portò via. Io rimasi tremendamente scioccata. Era una tragedia che non mi sarei mai aspettata che succedesse e così dovetti tornare in Africa da sola. Fu un periodo tremendo per tutti noi e un Natale molto triste.

Ebbi un po’ di conforto proprio dalla mia amica Carmen Rubini la quale proprio in quel periodo aveva avuto il suo secondo bambino Domenico e mi fece molta compagnia.

 

 

La vita continua – 1939

 

Nello stesso tempo avevo anche un valido aiuto da una donna nuova che avevo portato dall’Italia perché la prima si era sposata e noi si era andati avanti con le ragazze eritree, l’ultima delle quali era una ragazzina di tredici che invece di lavorare in casa, giocava con le mie figliole. Si chiamava Melasciù e la Isabella e la Romola la chiamavano mela asciutta perché era molto magra e molto piccola, sembrava una melina raggrinzita.

Avevamo subito pensato di rimpiazzare il bambino che ci era mancato e per fortuna io rimasi incinta abbastanza presto e speravo che nascesse un altro maschietto.

Verso la primavera dell’anno successivo mio marito aveva finito il suo periodo di aspettativa ed era rientrato nell’esercito e si prese una bella vacanza. Andò in Italia e siccome Isabella ogni tanto aveva ancora dei disturbi per questa brutta ameba, lui la portò e quando tornò la lasciò ai miei genitori perché dicevano che l’ameba guariva se si cambiava aria. Invece con Isabella non successe così; lei per tanti anni ebbe ancora disturbi molto gravi, ogni tanto questa ameba si nascondeva nella milza o nel fegato e poi alla prima occasione soprattutto col freddo dell’autunno si risvegliava e così andò avanti per tanti anni. Solo dopo la guerra, dopo undici anni di malattia ci furono delle nuove medicine studiate dagli americani nei tropici e, facendole una cura da cavallo, come dicevo io, con un medico molto bravo che era il dottor Wichman a Firenze e il professore amico di nostri amici di Roma, morì.

Bisognava farle due iniezioni al giorno di una medicina molto forte e nella siringa si metteva anche una fiala di canfora per rafforzare il cuore. Poi c’era un tubetto di pasticche che doveva prendere tutti i giorni e per medicare l’intestino irritato, con una sonda lunga di gomma si iniettava nell’intestino della soluzione d’argento che era come bruciare proprio l’intestino.

Povera Isabella si lasciava fare di tutto!

Effettivamente dopo tanto tempo questa cura fu efficace e lei guarì però come mi dicevano i medici; il suo intestino ora è una serie di cicatrici e per questo deve stare molto attenta a non mangiare cose irritanti e anche cose che possono far male al suo fegato che è rimasto un po’ debole.

 

 

Il ritorno in Italia – agosto 1939

 

Mio marito tornato dalla vacanza riprese servizio in Eritrea fino ad agosto quando fu trasferito in Libia e così decidemmo di tornare in Italia io e le bambine, e lui andò in Libia a prendere servizio. Quando si partì alla fine di agosto io ero molto grossa perché avevo finito il settimo mese di gravidanza. Si prese una nave a Massaua che era piuttosto una carretta che caricava muli dell’esercito da portare in Europa e ossa di animali, non so bene ma dovevano fare farina di ossa perciò c’era ogni tanto un puzzo tremendo nella nave. Alla partenza da Massaua che era uno dei punti più caldi del mondo, al porto a mezzanotte c’erano 40 gradi ancora e a me venne una specie di colpo di calore. Mi misi tranquilla in un angolo della sala d’aspetto del porto e non mi successe nulla di male ma mi sentii poco bene e sulla nave poi non mi sentii di entrare in cabina perché era molto caldo. L’aria condizionata esisteva solo negli ospedali in una stanza sola oppure nei grandi alberghi che incominciavano a costruire nei tropici.

Le tre notti nel mar Rosso le passai su una sedia a sdraio nella plancia davanti alla cabina del comandante il quale, impressionato dalla mia gravidanza mi mise un cameriere di guardia tutta la notte.

C’era il dottore di bordo, un giovanotto molto simpatico che però mi diceva sempre: signora non mi faccia scherzi; io non ho mai assistito ad un parto in venti anni, perciò se lei volesse partorire non lo faccia per far piacere a me.

C’era anche il veterinario che curava le mule, vedendo che le mie gambe erano grosse, si offrì di farmi dei massaggi alle gambe perché lui le faceva anche alle sue mule che stavano sempre ferme e le si ingrossavano le gambe. In ogni modo io ringraziai bene i due professionisti e per fortuna non ebbi bisogno di loro.

In quel momento c’era il pericolo dell’entrata in guerra dell’Italia perché la Germania si preparava ad invadere la Polonia che poi fece il 1° settembre credo e allora mio marito fu fermato in Eritrea perché avevano bisogno di ufficiali superiori, così dovetti tornare da sola senza di lui con la Romola e la nostra donna di servizio Elia che aveva già anche lei trovato un fidanzato, un camionista abruzzese che aveva intenzione di tornare al suo paese; così lei tornò con me e nella cabina della nave feci dormire lei e la Romola.

Sbarcammo a Napoli il 2 settembre e andammo subito in treno fino a Roma per dormire lì perché eravamo molto stanche.

Il primo giorno di oscuramento a Roma era talmente oscuro che non si vedeva nulla. La stazione Termini era buia come una cantina e si camminava a tentoni lungo i muri. Era proprio una cosa improvvisata allora e nessuno sapeva a che punto bisognava graduare gli oscuramenti.

In ogni modo arrivammo in un albergo vicino alla stazione, si dormì lì e la mattina dopo prendemmo il treno per Firenze.

Andai a casa nostra dove abitavano i miei genitori e la mia mamma aveva preparato un letto buono per me con un materasso nuovo però non potei dormire perché avevo dormito per anni in Africa su un divano molto morbido che sembrava una cuccia e così sul letto nuovo mi sembrava di essere in una botte e rotolavo di qua e di là. Le chiesi subito di prepararmi un divano e così lasciai il buon letto agli altri.

 

Dopo qualche tempo le paure della guerra svanirono un po’ e io pensavo già di andare a stare con le bambine in Libia, dove mio marito si era trasferito, perché non mi piaceva stare a Firenze.

Avevo capito che stare tutti insieme con le bambine dai miei genitori dava un po’ noia a mio padre che soffriva di diversi disturbi nervosi agli occhi e all’intestino.

Io mi cercai un appartamento per stare per conto mio e lo trovai in un palazzo in via dei Serragli vicino all’Arno.

Era un appartamento molto strano con delle stanze enormi.

L’entrata era da un cortile pieno di statue antiche perché al primo piano stava in importante antiquario che si chiamava Romano. Lui aveva anche diversi altri appartamenti che teneva come magazzini. Presi la parte del pian terreno con delle stanze enormi e le finestre davano su questo cortile o sul cortile della casa accanto perché questo appartamento faceva parte di due palazzi.

Una delle stanze era addirittura il teatro del palazzo che io mi aggiustai sulla scena come camera da letto e la platea come soggiorno. Poi c’era un enorme salotto e un’entrata molto grande e dopo queste grandi stanze un corridoio in cui avevamo arrangiato un bagno lungo e stretto. Questo corridoio finiva poi in una stanza molto grande nel palazzo accanto con l’unica finestra sulla strada e in un sottoscala murato c’era il gabinetto e un lavandino e quella stanza fu quella delle bambine: la Isabella e la Romola, perché la piccola Ciccina che era nata in quel tempo stava in una culla con me sulla scena del teatro. Poi c’erano altre due stanze che davano con la finestra sul cortile del palazzo accanto. In una dormivano le nostre due donne e una aveva portato anche il bambino di 7 anni con sé perché il marito era militare e l’altra era la stanza da pranzo. Poi c’era un grandissimo corridoio ancora che prendeva luce da un 3° corridoio e in fondo la cucina enorme con la finestra su borgo S. Frediano.

 

 

La nascita di Ciccina – 2 novembre 1939

 

Restammo in casa dei miei genitori fino alla nascita della Ciccina il 2 novembre 1939.

Pochi giorni prima io avevo compiuto 30 anni e la nascita fu svelta e facile e dopo una settimana mi trasferii nella casa nuova dove stetti molto bene perché ero comoda, abbastanza centrale e si riscaldava con delle stufe a legna.

Avevo due donne di servizio: una faceva la cucina e l’altra la bambinaia; proprio come ho detto aveva un bambino di 7 anni così tutti e quattro i bambini giocavano insieme.

L’estate dopo non andammo da nessuna parte in villeggiatura ma le bambine con la donna andavano tutti i giorni alle Cascine in riva all’Arno e stavano lì dalla mattina alla sera nell’acqua che allora era abbastanza chiara e si poteva fare il bagno nell’Arno.

Pensate che ora invece è proprio una cosa puzzolente e non ci si può neanche avvicinare.

 

 

 

 

Il ritorno in Africa – maggio 1940

 

Come avevo detto io avevo l’idea di lasciare Firenze e di trasferirmi in Libia dove mio marito era a Homs in un ufficio del comando della 23° divisione comandata dal generale Bergonzoli che era chiamato “barbaelettrica” perché portava una barba ben curata ed era molto spesso arrabbiato.

Nel maggio del 1940 io andai in Libia a cercare casa per noi.

Andai ad Homs dove mio marito abitava in una piccola villetta che però per noi sarebbe stata troppo piccola.

Inoltre c’era la cucina inagibile perché infestata di scarafaggi enormi che venivano fuori solo al buio e se si accendeva la luce c’era un fuggi fuggi generale e non si adoperava quella cucina. Invece dalla mensa ufficiali ci portavano sempre il mangiare a casa tutti i pasti oppure si andava a mangiare fuori al ristorante.

Ci stetti parecchio tempo, quasi un mese e visitai tanti posti come l’antica città romana Leptis Magna, dei ruderi e poi un grande piacere nel partecipare all’ultima corsa automobilistica di Tripoli. Si teneva tutti gli anni a Tripoli all’autodromo della Melaha il gran premio quello che chiamano ora “formula uno” e dopo c’era sempre un gran ricevimento dal governatore, così andammo alla mattina ad assistere a questa corsa ed era molto interessante e la sera andai con altri amici ufficiali al ricevimento.

Il governatore allora era Italo Balbo al quale piaceva fare le cose in grande e fu una festa meravigliosa con i giardini illuminati con luci colorate e tutti i soldati libici con costumi rossi ferme come sentinelle intorno.

C’era tanta di quella gente interessante, fra gli altri la figlia del Re, Iolanda, con suo marito che era anche lui un militare, generale d’armata, e mio marito non poté venire quella sera perché non aveva portato con sé la divisa nera da sera; non aveva pensato che fosse stato necessario.

In ogni modo i giorni passarono bene e io pensavo già di trovare qualcosa di piacevole, una villetta un po’ più grande quando un giorno mio marito venne un po’ agitato a casa e ha detto: “Guarda che abbiamo avuto l’ordine di trasferirci verso il confine egiziano perché forse c’è di nuovo un po’ di pericolo di guerra, così io ti ho fissato il ritorno su una nave e parti per l’Italia”.

Partii per l’Italia alla fine di maggio e sbarcai a Napoli il 3 giugno 1940.

Come si seppe dopo era l’ultima nave che arrivò a Napoli dalla Libia.

 

 

La dichiarazione di guerra – giugno 1940

 

Pochi giorni dopo il mio rientro in Italia arrivò la dichiarazione di guerra.

A Firenze nei primi anni non si sentiva grande differenza per la guerra; c’era un po’ di oscuramento nelle strade ma normalmente la vita continuava come sempre.

A me chiesero di aiutare in un ospedale militare a tenere l’amministrazione perché i medici che lo facevano prima facevano troppa confusione e io per un lungo periodo andavo tutti i giorni a villa Natalia sulla via Bolognese a tenere l’amministrazione di questo ospedale del quale la capa era la mia amica Nora Kraft.

In Africa la guerra andava male per l’Italia con tutto ciò che ci mandarono i tedeschi di Rommel, ma dopo la disfatta di El Alamein le truppe italiane tornarono indietro e tanti furono fatti prigionieri.

Anche il corpo d’armata nel quale stava mio marito fu tagliato fuori dalle retrovie e mio marito che non voleva essere preso prigioniero si accordò col comandante per uscire dall’accerchiamento. Presero un camion italiano e ci misero sopra dietro tutte le casseforti del corpo d’armata dietro al quale stavano due carabinieri e mio marito aveva portato con sé tutti i denari prima nelle casseforti e i libretti degli ufficiali; le bandiere dei raggruppamenti che facevano parte del corpo d’armata se le mise addosso a lui fra camicia e pelle e davanti sedevano l’autista, mio marito, il suo aiutante maggiore e il suo attendente. Davanti a loro fecero andare un’autoblinda inglese, che avevano preso qualche giorno prima, e, quando arrivarono alle truppe dell’accerchiamento, i neozelandesi che occupavano quel tratto di strada facevano grandi saluti di gioia; vedendo l’autoblinda inglese però, dopo si accorgevano che dietro veniva un camion italiano e incominciavano a sparare, invece a tutta carriera riuscirono a passare perché le pallottole andavano contro le casseforti che erano messe dietro.

Questa spedizione un po’ azzardata fu fatta proprio dal comando del corpo d’armata perché queste cose non cadessero nelle mani dei nemici che avrebbero poi identificato gli ufficiali prigionieri secondo i loro libretti.

Così mio marito fu tra i pochi che elusero la prigionia e misero su a Tripoli l’ufficio di scioglimento dell’armata fino ad un certo punto e poi lui rientrò in Italia. Non me lo disse prima ma un giorno me lo son trovato in casa. Tornando da una passeggiata il portiere mi corse incontro e mi disse: “E’ tornato il colonnello, è tornato il colonnello” e così trovai mio marito sano e salvo in Italia.

Durante la guerra avevano istituito una tessera per comprare cose da mangiare, soprattutto erano restrizioni su pane, pasta e carne e c’era anche una tessera per delle stoffe che non si potevano comprare tutte liberamente. Ma c’erano stoffe cosiddette autarchiche, stoffa di lana fatte con le ortiche che si chiamava “orbace” e altre invece con una sostanza prodotta dal latte che diventava una specie di lana anche quella.

E la gente cominciava già a lamentarsi del fascismo che aveva messo queste restrizioni però ufficialmente non si vedeva differenza.

C’erano sempre le riunioni dei giovani avanguardisti e le piccole italiane portavano in certi giorni di adunate il loro vestito costituito da una gonna nera, una camicetta bianca e una mantella nera a ruota. So che anche le mie due bambine più grandi la Romola e l’Isabella avevano questa divisa e si divertivano però molto ad andare alle assemblee perché non ci andavano davvero. Siccome avevano gratis l’autobus e il tram quando erano in divisa, invece di andare alle assemblee, giravano la città in tram dalla mattina a mezzogiorno per divertimento in gruppo con le amiche.

 

 

Il trasferimento a Orbetello – inverno 1941/42

 

Mio marito ebbe un nuovo incarico.

Andò a comandare il reggimento di guardia costiera ad Orbetello.

Lui si trasferì lì in una pensione e veniva ogni tanto sabato e domenica a Firenze, però siccome era una zona molto bella e ricca e in città avevano paura di bombardamenti dopo un certo periodo si decise che anch’io con le bambine saremmo andate vicino ad Orbetello in campagna per stare più tranquilli.

Ad ogni modo l’inverno che si passò prima e che fu quello tra il ’41 e ’42 noi abbiamo mangiato tanto di quel pesce, tanta di quella cacciagione che mio marito mandava dalla maremma che non si sentì nessuna mancanza nel nutrimento, invece alcuni giovani Rui Sansoni dicono di aver sofferto molta fame in quel periodo perché erano nel momento della crescita e come uomini abbastanza grandi soffrivano molto.

Così noi andammo in primavera del ’42 a S. Liberata che è un posto vicino ad Orbetello nell’Argentario, prendemmo in affitto un appartamento quasi ammobiliato, ci portammo una parte dei nostri mobili e si stette lì proprio bene.

Avevamo un attendente che ci faceva bene la cucina.

All’inizio era Virgilio, un richiamato di una certa età, che era stato cuoco nel treno di Mussolini perciò era molto bravo a cucinare, soltanto aveva il vizio del bere. Domenica pomeriggio quando lui era libero andava con gli amici nelle trattorie e ritornava ubriaco. Io lo vedevo arrivare in cucina tutto barcollante e la cucina nostra era una cucina economica con la legna perché a S. Liberata non c’era il gas. Allora quando lo vedevo così qualche volta dicevo: “Virgilio vuole che l’aiuti ad accendere il fuoco?” e lui: “No signora, no signora, vada fuori”. Si reggeva con due mani alla cucina e riusciva sempre lo stesso a fare un bel fuoco e a preparare la cena. Si vede che la routine fa molto anche per una persona che non si regge quasi in piedi. Virgilio fu congedato perché aveva compiuto 40 anni.

E noi si prese come attendente un giovane lombardo. Era di Lodi vecchio e aveva fatto il fornaio perché la sua mamma possedeva una trattoria e lui aveva imparato a fare il pane però aveva imparato anche a fare altre cose e noi si mangiava sempre bene con lui. Si chiamava Bassano e gli abbiamo insegnato a fare le crepes che io chiamavo le omelettes e lui diceva sempre: “Ora quando torno a casa nella nostra trattoria farò sempre omelettes così come ho imparato adesso”.

La Ciccina era molto affezionata a Bassano e quando andavamo d’estate a fare il bagno alla Giannella che era quasi di fronte alla casa dove si stava noi, Bassano faceva nuotare la Ciccina nell’acqua alta e non arrivava.

Anche le altre due bambine stavano volentieri con lui.

Poi avevamo come bambinaia una ragazza del posto, Laura, che si divertiva molto sulla spiaggia con le bambine.

Si faceva una vita abbastanza tranquilla e avevamo servizio quanto si voleva perché vicino c’erano dei militari con un posto di telefono e io avevo il telefono da campo in casa perché mio marito quando veniva a trovarci avesse la diretta comunicazione con il comando.

Alcuni amici di Bassano mangiavano tutte le domeniche un piatto speciale che sarebbe stato un gatto perché erano vicentini; allora Bassano andava a cucinare il gatto per gli amici. Tante volte io gli ho detto di farmi assaggiare quel famoso gatto e mi portò un giorno un bel pezzo di carne ben cotta e lo assaggiai. Non era cattivo ma non mi piaceva perché era fatto in salmì e con l’aceto in qualche modo. Forse se non fosse stato fatto in salmì sarebbe anche a me piaciuto l’arrosto di gatto.

Noi per guardia avevamo un cane lupo che proveniva dalla Iugoslavia. Era un cane che i militari avevano ferito in una azione in Iugoslavia; poi l’avevano guarito e portato con loro ed erano stazionati con questo cane verso S. Stefano sempre vicino. Allora siccome la nostra casa dove si viveva era un poco isolata ci diedero il cane a noi. Era un cane addestrato militarmente però non dagli italiani, si chiamava Pes, in slavo vuol dire cane. Pes era un cane molto buono, però un buon guardiano. Quando una persona si avvicinava alla porta di casa, lui saliva sulle punte dei piedi e cominciava a brontolare, non abbaiava, stava lì pronto a scattare, ad azzannare finché qualcuno di noi usciva e gli diceva se questa persona aveva il permesso di entrare o no. Se vedeva una persona in divisa, un ufficiale o un soldato, non diceva nulla perché quelli erano suoi amici.

La Ciccina giocava con questo cane e lui si lasciava fare di tutto da lei, lei andava addirittura anche a cavallo di lui perché era un cane grande, un cane lupo. Solo quando lei gli faceva tanto male cominciava a fare “uich, uich, uich” così per lamentarsi un po’ però non l’ha mai morsicata.

Nell’inverno ‘42-’43 la Romola e l’Isabella andavano a scuola ad Orbetello. Andavano in bicicletta, lasciavano la bicicletta in caserma e andavano alla scuola media.

Siccome alla caserma avevano tutti gli annunci degli allarmi e dei bombardamenti, appena arrivava il preallarme della zona, un messaggio andava alla scuola a dire: “E’ arrivato il preallarme, mandate a casa i ragazzi”; così loro molto spesso non facevano lezione e tornavano a casa oppure andavano a giocare con i compagni di classe sulla laguna o sulla collina.

La Romola era molto popolare, comandava una banda di ragazzi e ragazzini più piccoli di lei e tutti la conoscevano, tanto che anche sui muri di Orbetello apparve una scritta di questo tenore “Romolina, Romolina, con le zampe di gallina, col sedere di velluto, Romolina ti saluto”.

D’estate tutti questi ragazzi andavano al mare e nuotavano molto bene, facevano i tuffi nel canale che dal mare aperto andava dentro la laguna e passava davanti alla nostra casa.

Molto brava nei tuffi era l’Isabella la quale si lanciava ogni momento nell’acqua più profonda, invece la Romola aveva paura di andare con la testa sotto acqua, perciò non faceva i tuffi.

La Ciccina sguazzava sulla riva e quando c’era Bassano si faceva trascinare fin dove l’acqua era profonda.

Uno degli ufficiali della batteria più vicina che stava in Giannella era un industriale di Firenze molto ricco il quale aveva un pattino e ci portava in giro con questo pattino; questi aveva anche comprato un cavallo e un calessino e ogni tanto io andavo a spasso per l’Argentario con questo cavallo col calessino guidato da un soldato. Ho percorso certe strade impervie perché ancora non esisteva la strada grande che gira intorno all’Argentario e qualche volta ci si trovava anche in difficoltà a trovare un posto dove voltare. Con questo calessino ho percorso anche tutta la Feniglia e spesso vedevo saltare le lepri qua e là e i caprioli.

Era proprio una zona selvaggia allora ma molto molto bella.

Tutti noi abbiamo sempre avuto una grande passione per l’Argentario e per tutta la Maremma che sono zone molto molto belle.

A Pitigliano – 1943

 

Intanto mio marito aveva avuto un incarico più importante ed era andato a comandare la brigata di Grosseto, il comando della quale però, per pericolo di bombardamenti, aveva lasciato la città e si era trasferito ad Ischia d’Ambrone, un piccolo paese dell’interno.

Mio marito veniva più raramente a trovarci ma il telefono rimase da noi e così quando venne la destituzione di Mussolini il 25 luglio, perché andavano peggio le situazioni della guerra, io lo seppi subito dal telefono da campo e anzi i soldati intorno chiedevano a me cosa succedeva ancora perché pensavano che io sapessi qualcosa di più.

Intanto si erano sentiti i bombardamenti delle grandi città.

C’era stato lo sbarco in Sicilia.

Finalmente arrivò anche l’8 settembre col disastro dell’esercito italiano e mio marito in quel periodo ebbe un altro trasferimento; lasciata la brigata di Grosseto era stato trasferito al 5° Corpo d’armata e un altro era diventato il comandante della brigata di Grosseto: un generale che era molto filo-tedesco. Così subito dopo l’8 settembre egli si aggregò al Comando tedesco e con tutta la brigata, come in tanti altri posti, lasciò l’incarico e andò a casa.

Ci fu un enorme sfacelo e tutto l’esercito italiano fu spazzato via in un momento e il Re scappò da Roma.

C’era un grande caos in tutto il Paese.

Mio marito proprio in quel mese era a far la cura ad Aqui Terme perciò l’8 settembre non c’era; tornò alla fine del mese, dopo la cura.

Siccome si incominciavano a formare nelle campagne dei gruppi di militari che volevano contrastare i Tedeschi, noi decidemmo di andare tutti insieme nell’interno dove vicino alla cittadina di Pitigliano c’era un sottufficiale di mio marito che aveva proposto di darci una casa e così dopo noi potevamo fare il nostro comodo e il nostro lavoro nella zona. Ci si trasferì lì e andammo ad abitare nell’appartamento di questi signori che erano grandi commercianti di vini e nella zona di Pitigliano il vino viene tenuto in enormi botti dentro le grotte scavate nelle pareti di tufo della zona.

Tutta la zona dell’Appennino in quella parte d’Italia è formata da queste parti di tufo che sono delle antiche ceneri di vulcani perché una volta era una zona vulcanica. Il resto dei vulcani è ancora il monte Amiata che è l’unico che ha ancora delle sorgenti calde che provengono dal suo interno e questo dimostra che non è ancora completamente raffreddato come vulcano.

Gli ultimi giorni che abbiamo passato a S. Liberata erano molto agitati perché incominciavano dei grandi bombardamenti dell’aeroporto di Grosseto che era proprio dall’altra parte del mare di fronte alla casa che abitavamo.

Quando cominciavano i bombardamenti noi scendevamo dopo la casa dove passava la ferrovia e andavamo a rifugiarci in una galleria dove normalmente passava il treno e di sera soprattutto era tutto uno spettacolo vedere quella illuminazione di lampi e di bengala buttati dagli aerei che facevano una grande impressione soprattutto di notte e si dovevano svegliare sempre le bambine che dormivano già.

La Isabella era quella che aveva il sonno più profondo e non voleva alzarsi e svegliarsi, però quando poi finalmente apriva gli occhi e vedeva tutti questi fuochi d’artificio prendeva una gran paura e cominciava a tremare e scappava di casa verso la galleria.

Era l’ottobre 1943 quando noi ci trasferimmo a Pitigliano e con noi venne Bassano il quale non aveva intenzione di tornare a casa sua e si vede che si era affezionato a noi e stette con noi per parecchio tempo.

Egli prese la bicicletta e vestitosi con pantaloncini color cachi e camicia militare andò a Pitigliano; qui tutta la popolazione si spaventò e disse: “Arrivano i Tedeschi, arrivano i Tedeschi” perché era grande e grosso, biondo con gli occhi azzurri e poteva veramente sembrare un tedesco.

Invece poi si tranquillizzarono e accolsero anche noi abbastanza amichevolmente.

A Pitigliano siamo stati per dieci mesi ed è stato un periodo agitato con molti pensieri perché era proprio durante la guerra.

Abbiamo cambiato tre volte casa perché da una casa ci buttarono fuori.

Poi andammo a vivere in un’altra che era una casa provvisoria perché non era neanche finita di costruire e in ultimo andammo a finire in un vecchio mulino fuori del paese a picco su un torrente; accanto a questo mulino c’era ancora la roggia dove passava l’acqua e noi attingemmo l’acqua per cucinare e per lavarsi da questa roggia la quale però passava anche sotto il macello del paese e quando macellavano, la roggia era rossa di sangue e non si poteva prendere l’acqua; per bere naturalmente si andava a prenderla in altri posti, in qualche fontana del paese.

Eravamo molto controllati e sospettati lì; subito dopo l’arrivo a Pitigliano mio marito si mise ad organizzare un gruppo di soldati che erano rimasti lì nella campagna, soprattutto siciliani che a causa del fronte non potevano andare a casa loro.

Così diventammo i primi gruppi che allora si chiamavano i Badogliani perché in quel momento il maresciallo Badoglio era diventato il capo del governo e purtroppo insieme al Re erano fuggiti da Roma tutti i capi e tutto il Paese era allo sfascio.

Noi allora non ci chiamavamo ancora partigiani.

I Tedeschi, contro i quali noi operavamo, hanno appioppato questo nome a noi dopo tant’è vero che vicino alla strada grande, l’Aurelia, che loro controllavano a tutti gli ingressi nelle strade secondarie che portavano all’interno del paese misero dei grandi cartelli “Achtung Partisanen” e allora tutti i militari che entravano in quelle strade lo facevano a proprio rischio e pericolo e noi non eravamo lì per fare la guerra direttamente ai reparti tedeschi perché eravamo troppo pochi; noi dovevamo prepararci ad ostacolare le truppe tedesche quando queste finalmente avrebbero lasciato il Sud e il Centro dell’Italia ritirandosi verso Nord. Così dovevamo far saltare dei ponti, fare degli sbarramenti di tipo anticarro sulle strade interne.

Avevamo anche un piccolo gruppo di Russi che erano scappati dai campi di prigionia italiani e, siccome io sapevo parlare russo, gli ordini a loro li davo io, così diventai anch’io molto pratica di questa organizzazione.

Però naturalmente i Tedeschi e anche le truppe della milizia divennero molto sospettosi e capirono che mio marito era a capo di questo gruppo di militari; egli stava in una capanna nella macchia “la selva dell’Amone”, io invece in paese con le bambine, e, quando avevo bisogno di conferire con lui, gli mandavo una scorta ed egli veniva la notte da me e facevamo i nostri piani.

La nostra zona comprendeva una parte delle province di Grosseto, Viterbo, Siena. Giù al mare avevamo un reparto della Finanza Marittima che lavorava con noi e ci dava le informazioni; invece sul lago di Bolsena c’era un gruppo di tecnici della Aviazione che decifravano i messaggi cifrati; così eravamo sempre molto informati.

I nostri Russi erano tutti molto pratici di esplosivi e guastatori, come li chiamavano. Allora andavano loro a minare i ponti e, abituati al freddo com’erano, anche d’inverno andavano nudi nell’acqua gelida dei fiumi per mettere le bombe sotto i ponti. Quando i Tedeschi che erano di guardia ai ponti vedevano queste manovre scappavano a gambe levate per non essere coinvolti nello scoppio.

Come aiuti avevamo diversi sottufficiali italiani che stavano nella zona e un solo ufficiale che era un tenente della sussistenza, ufficiale di complemento che di mestiere faceva il professore di lettere al liceo così egli stette in paese e lo presero subito nella scuola media di Pitigliano come professore ed egli continuò ad insegnare lì e nello stesso tempo continuava ad appoggiare i gruppi partigiani.

La polizia fascista e la milizia si insospettirono molto di questi movimenti nella zona così un giorno un maresciallo dei carabinieri venne a casa nostra e mi portò via come ostaggio perché pensavano che per rilasciare me si sarebbe presentato mio marito al quale davano la caccia.

Mi portarono a Grosseto, alla questura per fortuna il questore di Grosseto era uno che faceva il doppio gioco, perciò egli faceva finta di lavorare per i fascisti invece effettivamente aiutava noi e stando lì un po’ di ore riuscì a liberarmi perché diceva: “Una povera donna con tre bambine piccole non si può portare via, a chi può lasciare le bambine?”.

Allora lo stesso giorno, alla sera, mi riportarono a casa però mi dissero che non avrei potuto muovermi da Pitigliano, dovevo stare sempre lì a disposizione.

Mio marito in quel momento era proprio a casa mia, nascosto naturalmente, e si decise che in qualche modo doveva farsi vivo; si decise che sarebbe andato a Siena a ricoverarsi all’ospedale militare facendo finta di essere ricoverato tutto il tempo perciò non poteva aver a che fare con i partigiani. E così fu. Egli di notte salì sull’autobus che portava a Siena dove i medici e gli infermieri lo accolsero bene e gli fecero una cartella finta come se fosse ricoverato lì già da due mesi.

E così io restai più tranquilla a Pitigliano.

A lui però, dopo un po’, gli fecero ugualmente il processo; fu provato che non poteva aver avuto a che fare e fu esiliato a Firenze.

Alla polizia tutti sapevano che avevamo casa a Firenze, così egli andò a stare con i miei genitori nella casa di Firenze e doveva presentarsi ogni tre giorni alla Questura per firmare e gli era proibito andare nelle tre province di Grosseto, Viterbo, Siena.

Nella zona di Pitigliano, mancando mio marito come capo, ho continuato io quello che si doveva fare. Vedendo che le azioni nostre andavano avanti lo stesso con il colonnello Bellandi vero a Firenze, cominciarono a sospettare di me che ero diventata il colonnello Bellandi.

Così la Milizia Militare mise un osservatore alla terrazza di Pitigliano il quale col binocolo controllava la porta del vecchio mulino dove vivevamo noi e se una persona estranea entrava da me anche solo per fare una visita, all’uscita veniva immediatamente arrestata.

Con me collaborava anche come doppio gioco il tenente dei carabinieri, ufficialmente alla tenenza di Pitigliano. Questi, quando doveva consigliarsi con me, faceva finta di fare una perquisizione, veniva accompagnato da un milite che lasciava di guardia fuori ed entrava da me, così egli era insospettabile ed io ero inquisita.

Quando invece dovevo consultarmi con gli altri militari e i sottufficiali davo appuntamento in certe grotte intorno al paese. Andavo con Isabella di 12 anni, la quale mi faceva da palo fuori dalla grotta mentre io mi consigliavo con i militari.

Al di fuori di questa attività la nostra vita a Pitigliano sembrava normale e noi naturalmente non avevamo molti soldi e allora tutti i proprietari dei terreni intorno ci mandavano cose da mangiare. Però, siccome eravamo legati al Comitato di Liberazione di Roma, avevamo pagato tutto quello che consumavamo perché a quei tempi naturalmente i soldi che dovevano dare a mio marito arrivavano solo a lui a Firenze e a me poteva mandare poche cose.

Un bel momento Bassano, il nostro attendente, venne invitato dalla polizia ad andare al Nord perché i Tedeschi reclutavano tutti i giovani per le loro truppe, anzi fu preso e messo in cima a un camion che andava al Nord e così io rimasi senza il suo aiuto.

In paese c’era però una vecchia donnetta che era sfollata da Grosseto e stava da una figliola ed io la ingaggiai per badare un po’ alla Ciccina che era piccola, poi ci faceva da mangiare e aiutava in casa; si chiamava Beppina ed era fornaia di mestiere; era molto simpatica ma piuttosto taciturna. Parlava poco però si era molto affezionata a noi.

Un bel momento anche a Pitigliano arrivarono i Tedeschi, però non erano tedeschi combattenti. Era un reparto di macellai i quali prendevano le bestie dei contadini, le macellavano e facevano le salsicce per la loro truppa.

Io, sapendo parlare tedesco, feci quasi amicizia con un sottufficiale tedesco che lavorava lì ai macelli; qualche volta alla sera veniva a far due chiacchiere da me e un bel momento tirava fuori dalla sua giacca degli enormi salsiccioni che mi lasciava in casa e così si mangiava anche la carne qualche volta. Quando ci davano degli agnelli della campagna egli, da macellaio, me li spellava. In cambio, per ringraziarlo, io compravo ad Orbetello dei pezzi di stoffa e glieli regalavo perché li mandasse alle figlie, supergiù dell’età delle mie, in Germania dove era molto difficile trovare delle stoffe buone per fare vestiti estivi.

I macellai, quando avevano preparato tutta la carne per le loro salsicce, invitavano la popolazione a venire a prendere il brodo rimasto. Allora tutte le donnette del paese andavano da loro in certi giorni con delle grandi pentole e si portavano via il brodo che era molto buono. Anche noi qualche volta, quando non c’era altra gente, andavamo con una grande pentola e questo nostro amico tedesco si guardava un po’ intorno e lasciava cadere dentro la pentola un fegato intero o una zampa di agnello già cotta e così portavamo a casa anche la carne.

A quei tempi Pitigliano era un piccolo paesino molto semplice e tranquillo dell’entroterra della Maremma.

Gli abitanti vivevano di agricoltura però, siccome allora c’era la malaria, lavoravano di giorno nei campi fuori paese e di sera rientravano in città nelle loro case.

Noi siamo arrivati a Pitigliano al momento della raccolta dell’uva e in paese non si poteva comprare l’uva perché non c’erano negozi che la vendeva; io e le mie bambine però ci mettevamo fuori della porta sedute al bordo della strada e tutti i contadini che passavano ci regalavano dei bellissimi grappoli d’uva; mai nella nostra vita abbiamo mangiato tanta uva come in quei giorni.

Con questa uva veniva fatto un vino bianco molto buono che veniva conservato in grandi cantine ricavate nelle pareti tufacee di tutte le montane laggiù.

Per farmi piacere mi mandavano a casa in regalo delle damigianine di 25 litri di vino, così io ho imparato a bere il vino bianco.

Lo stesso succedeva con la frutta varia e le verdure, tanto che Bassano faceva dei minestroni meravigliosi.

Egli andava con la bicicletta nei campi e raccoglieva tutto quello che gli serviva per fare un buon minestrone e poi tornava a casa e cucinava. E come al solito egli con una mano teneva la Ciccina piccola che si interessava molto a tutto quello che faceva e con l’altra mano rigirava la minestra. Nell’appartamento dove si abitava con lui allora si stava sempre in cucina perché ormai era inverno e in questa stanza c’era la cucina economica che riscaldava.

Quando invece venne Beppina abitavamo già nel mulino abbandonato e allora si dava più da fare intorno alla casa; era febbraio e marzo, incominciava a essere un po’ più caldo e anche le bambine stavano molto fuori.

Il professore tenente che lavorava con noi, insegnava alla scuola media di Pitigliano e l’Isabella che aveva 12 anni era proprio una delle sue allieve in terza media.

La Romola era troppo grande e, siccome non c’era il liceo, ha fatto vacanza tutto l’anno.

La Ciccina era troppo piccina e giocava molto con il nostro cane Pes che avevamo portato con noi anche a Pitigliano.

La Ciccina era di temperamento e di carattere molto nervosa e non so come mai avesse un sesto senso che le permetteva di percepire quando c’era pericolo di bombardamenti; quando lei diceva: “Adesso vengono” noi eravamo sicure che circa 20 minuti dopo si sarebbero sentiti i rombi degli aerei che andavano a bombardare l’aeroporto di Grosseto. Ogni tanto si azzuffavano proprio sopra di noi e quindi si vedevano cadere diversi aeroplani sia tedeschi che inglesi.

Una notte la Ciccina ci avvisò di nuovo e così dopo un po’ ci fu un enorme scoppio ed è stata l’unica volta che una bomba cadde vicino al nostro rifugio.

Da allora noi di notte andavamo a dormire nelle grotte che erano state scavate dalle persone che abitavano nella zona per ripostigli, cantine per il vino oppure stalle per i maiali. In seguito un nostro conoscente, anzi il veterinario del paese che aveva una figlia, amica della Romola, ci mise a disposizione la sua legnaia, noi portammo delle reti e riuscimmo a dormire tranquillamente di notte.

A quel tempo a mio marito avevano dato di nuovo il permesso di lasciare Firenze e venire con noi.

Era l’aprile del ’44 ed egli rimase anche di notte nel mulino ma, verso maggio, i Tedeschi che incominciavano a sgombrare il Centro Italia e si fermavano a combattere sugli Appennini, dopo aver preparato il vallo gotico, quando in ritirata da Roma attraversarono la Maremma arrestarono mio marito. Lo portarono a Viterbo e gli fecero di nuovo un breve processo senza però imputargli nulla; allora mandarono un reparto delle SS per fare un rastrellamento intorno a Pitigliano e vennero anche a casa nostra; fecero una perquisizione e dopo, con la scusa di dire che una famiglia con bambine piccole non doveva restare nella zona del fronte, ci lasciarono liberi.

 

 

Da Pitigliano a Firenze – estate 1944

 

Al paese per la tessera non davano ogni tanto un buono per il pane però ci davano la razione per il mese in natura, vuol dire dei sacchi di grano, ognuno doveva poi comprare la farina e fare il pane per conto suo.

Mentre stavamo caricando, improvvisamente vedemmo arrivare dal paese la nostra Beppina, la quale aveva messo un po’ dei suoi indumenti in un fazzoletto annodato e portandoselo sotto braccio veniva per farsi portar via insieme a noi perché non voleva lasciarci soli. I Tedeschi vedendo lei che era lì dissero: “Allora anche la suocera” e la misero sul camion poi c’era il cane Pes che ringhiava e che era difficile lasciarlo solo lì, così caricarono anche lui e noi si partì alla sera e si fece un viaggio terribile, due notti e un giorno.

Io in quel momento crollai e mi misi a piangere e piansi per tutto il tempo.

Così in cima al camion c’era mio marito, la Beppina, l’Isabella, la Romola e il soldato di guardia; io con la Ciccina sedevo accanto all’autista il quale era un austriaco, perciò non era un SS vero e lui cercava di consolarmi, mi batteva dei colpetti sul braccio e diceva: “Non sarà tanto male come lei crede, stia tranquilla signora”.

Viaggiamo tutta la notte su strade dissestate, ponti che non c’erano più, guadando dei fiumiciattoli passando accanto a dei casolari e a dei paesini dove c’era un puzzo tremendo di morte; non si sa se erano morti uomini o animali. Era terribile!

Verso la mattina ci fermammo in un posto prima di Siena che si chiamava Gallina e i Tedeschi non volevano viaggiare di giorno per paura degli aerei, così ci lasciarono in una casa di contadini vicino alla strada e andarono a nascondersi con il loro camion in un boschetto.

Alla sera ci vennero a riprendere e si continuò il viaggio.

Verso le 4 di mattina si arrivò a Firenze e ci si fermò davanti alla casa dei miei genitori.

I Tedeschi sapevano benissimo dove era la nostra casa e chi ci stava e ci scaricarono lì.

I soldati di scorta lasciarono un foglio con scritto “Destinazione Buchenwald” e tante altre indicazioni e ci dissero che la mattina dopo sarebbe venuta la polizia italiana per continuare a portarci via.

La mattina dopo non arrivò nessuno e le bambine dopo un po’ trovarono vicino al cancello un foglio di carta con su scritto “Noi non veniamo. Nascondetevi per 24 ore. Nessuno vi cercherà”.

E così noi si cercò di prendere contatto con delle persone che si sapeva che a Firenze lavoravano per la Resistenza le quali misero a nostra disposizione un appartamento vuoto in via della Colonna che era di un professore richiamato alle armi e non più ritornato a casa dalla Sardegna.

Noi ci si mise a vivere lì e avevamo portato in ultimo da Pitigliano una gallina viva che noi mettemmo legata con lo spago al cancello del terrazzo al quarto piano. Questa povera gallina ebbe una brutta fine perché lo spago un giorno si ruppe e lei cascò giù e morì di colpo. Siccome avevamo poco da mangiare e ancor meno soldi, si fece la gallina lessa. Le bambine non vollero mangiarla perché si erano affezionate e la mangiammo io, mio marito e la Beppina.

Noi sapevamo anche che vicino a Porta Romana, in via Senese, nella panetteria Bellini i fornai preparavano delle gallette che erano dei pani molto duri che andavano a prendere i partigiani che stavano nelle montagne dell’Appennino. Allora questo fornaio ci diede dei sacchi di gallette perché noi non avevamo la tessera e non potevamo fare il pane perché i sacchi di grano erano ancora da macinare; così noi mangiavamo queste gallette. Però delle persone vicine che avevano poco pane ci chiesero le gallette e noi facevamo degli scambi.

Siccome non c’era più la luce elettrica a Firenze, c’erano solo le candele e il carbone e noi il carbone non l’avevamo, trovammo una famiglia che in cambio delle gallette ci dava il carbone.

Un’altra poi ci dava un po’ di fagioli e, con quei pochi soldi che avevamo, trovavamo della verdura e così si mangiava in ogni modo a sufficienza. Non abbiamo sofferto la fame proprio per merito di queste gallette che ci servivano anche come merce di scambio.

Intanto i Tedeschi avevano lasciato Roma e, sempre combattendo, si ritiravano verso Nord e arrivarono poi in luglio vicino a Firenze.

C’erano i combattimenti verso S. Casciano e altri paesi vicini e, nel ritirarsi, decisero di far saltare i ponti di Firenze.

Noi eravamo tutti in casa lì al 4° piano quando sentimmo tutti i grandi boati dei ponti che saltavano e delle case fatte saltare di qua e di là del Ponte Vecchio che volevano salvare.

Mio marito non poteva uscire in strada perché tutti gli uomini che giravano per la città venivano presi dai Tedeschi per portare al Nord o per lavoro o per fare i militari, così io e le bambine, anche dopo i crolli dei ponti andavamo un po’ in giro a vedere com’era il ponte delle Grazie.

Mi ricordo che si arrivò fin lì perché abitavamo in via della Colonna che non era lontano e assistemmo a delle scene molto brutte anche per strada. I Tedeschi rapinavano la gente portando via orologi e poi in uno spazio destinato alla distribuzione del pane facevano finta di regalare loro il pane alla popolazione quando c’erano le cineprese che riprendevano. Era tutto per la propaganda in Germania, perché si potesse dire: “Come erano buone le truppe tedesche in Italia!”.

I primi di agosto arrivò il giorno della Liberazione e noi dalle finestre vedemmo passare le prime pattuglie di Canadesi con i berrettoni verdi e capimmo che non c’era più pericolo di guerra per noi perché il fronte si era spostato prima sul Mugnone poi a Fiesole e i Tedeschi si ritiravano sulla Linea Gotica.

Così noi potemmo tornare di nuovo in casa dei miei genitori verso il 10 di agosto.

Ci si mise in marcia per attraversare l’Arno.

Sapemmo che alla Pescaia di S. Rosa, dopo l’ultimo ponte saltato, che era quello della Carraia, i pompieri avevano messo una scala per scendere sul fiume dove si poteva camminare vista la poca acqua che c’era in Arno in agosto proprio sulla Pescaia e che dall’altra parte c’erano le pattuglie dei Canadesi che aiutavano a salire; allora noi scendemmo dalla parte del fiume che è il Lungarno. La scala era un po’ scomoda e, ad un certo punto, mancava anche il gradino. Il cane era sempre con noi e, siccome aveva paura dell’acqua, fu preso in braccio da mio marito che scese per primo e si fermò giù. Poi scese la Beppina e le bambine e la povera Romola che aveva i giramenti di testa dovette essere sostenuta dal padre per scendere. Io presi il cane al guinzaglio e tutti insieme andammo dall’altra parte dove c’erano i Canadesi che ci tiravano su. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei e il cane; si divertirono molto ad aiutare questa famiglia numerosa che aveva attraversato l’Arno a piedi.

 Così per noi finì la guerra attiva e incominciò una piuttosto difficile convivenza con i miei genitori nel loro appartamento.

Per l’Italia la guerra finì definitivamente il 25 aprile 1945.

L’esercito italiano non esisteva più e mio marito, che era un ufficiale superiore, venne messo in pensione.

 

 

Il dopoguerra

 

La pensione a quei tempi era molto bassa per cui incontrammo anche delle difficoltà economiche e mio marito purtroppo dovette vendere alcuni dei francobolli più belli della sua collezione.

In un primo momento si pensò di andare a vivere in un’altra città, per esempio in Sicilia dove la vita costava meno, e mettemmo in vendita la casa dove abitavamo allora, il nostro villino in via Augusto Righi.

Nel frattempo ci eravamo accorti che in quella casa, alla fine della guerra, era rimasto vuoto un appartamento perché due persone erano sfollate e nell’altro appartamento che era sfitto non c’era nessuno, pertanto ci trasferimmo lì all’inizio del ’46.

Nell’agosto del 1947 la mia mamma morì; essendo un’estate molto calda fece un bagno freddo e le venne un blocco renale; ella, che soffriva già di calcoli, morì dopo una settimana.

Mio padre era già vecchio e non poteva restare solo, così noi ritornammo in viale Macchiavelli insieme a lui e vendemmo la casa di viale Righi; una parte del ricavato ci servì per vivere e con l’altra parte comprammo un villino a Forte dei Marmi perché a mio marito e alle bambine piaceva molto il mare. Così avevamo un posto dove andare a fare la villeggiatura estiva e, in più, nel mese di agosto affittavamo la casa ad altri villeggianti per avere un po’ di soldi per mantenere la casa.

Mio marito cercava disperatamente qualche attività per migliorare un po’ le nostre entrate ma un signore che aveva per tutta la vita fatto il militare non era pratico di amministrazione civile e non trovò nulla in quel momento in cui la gente faceva i soldi soprattutto con il mercato nero e con delle attività illecite perché tutto il sistema economico italiano era in subbuglio.

C’era un grande caos e nessuna attività si svolgeva normalmente.

Molti imprenditori incominciavano allora a sistemare le loro aziende ma ci è voluto il Piano Marshall per tirar su un po’ l’economia e arrivare negli anni ’60 al famoso boom economico italiano.

In casa dei nonni era rimasta da alcuni anni una vecchia signora russa che si chiamava Gnagna la quale faceva da mangiare e accudiva la casa in attesa di andare in America dove erano già andati degli amici dei miei genitori con la quota dell’Estonia; la Gnagna, che doveva aspettare un’altra quota, rimase lì anche quando noi, dopo la morte della mamma, ci trasferimmo dal nonno. Era molto simpatica e faceva da mangiare a modo suo. La Romola imparò da lei alcune ricette russe che seppe riprodurre anche dopo.

Le mie bambine che erano cresciute ritornarono a scuola regolarmente.

 

La Romola aveva finito il liceo artistico e si era iscritta ad architettura e, siccome noi non potevamo pagarle le tasse universitarie, per guadagnarsele andava a lavorare presso uno studio di ceramica e metteva da parte abbastanza soldi tanto che riuscì a comprarsi anche il forno di ceramica che le permise di dedicarsi ad un’attività che le piaceva molto.

 

La Isabella frequentava la scuola alberghiera e imparava tante lingue; nel 1953 andò in Inghilterra per imparare meglio l’inglese e al ritorno trovò lavoro, prima all’Istituto Rinascimentale di Palazzo Strozzi, poi, quando il commercio estero divenne più vivace in Italia, andò in un ufficio di compravendita e rimase in quel settore per tutti gli anni che ha potuto lavorare. Si era fidanzata con un giovane fiorentino molto simpatico e soprattutto molto bello che aveva conosciuto a Forte dei Marmi in una delle nostre vacanze al mare e, avendo intenzione di sposarsi presto, metteva da parte i soldi per il suo corredo.

Il fidanzato di Isabella, che era di una famiglia fiorentina, si chiamava Guido Sansoni; viveva insieme a dei cugini di una famiglia molto ricca di nome Ridi.

Questi cugini erano quattro ragazzotti alti e grossi, molto vivaci e si divertivano a Forte dei Marmi a nuotare e a fare dispetti alle mie figliole che erano supergiù della loro età.

 

La Ciccina invece, che era più piccola, aveva terminato le scuole elementari e aveva dimostrato molta predisposizione per la musica; così, quando aveva nove anni, io comprai un pianoforte ed ella incominciò lentamente a studiare musica.

Dopo le elementari frequentò le scuole medie di Porta Romana e lì scoprimmo che era brava anche in disegno tant’è vero che un suo disegno, un progetto di un piatto colorato, si trova ancora nel museo della scuola. Però non le piaceva frequentare quella scuola e allora decidemmo di mandarla a lezioni private da Lalla, sposata Matteini, un’amica di scuola della Romola.

Siccome amava la musica, andò alla scuola del Conservatorio di via Cherubini a studiare il pianoforte ma anche lì non andava volentieri e allora decidemmo di farle imparare a suonare il pianoforte privatamente da una signora molto brava che insegnava molto bene e che divenne la sua insegnante preferita e, in seguito, una grande amica. Questa signora si chiamava Adriana Cintolesi ed era una grande fumatrice, tant’è vero che dopo le venne l’enfisema polmonare e morì abbastanza presto.

La Ciccina purtroppo imparò a fumare in tenera età; infatti aveva incominciato a fumare un’estate quando aveva solo tredici anni e la mandai in un campeggio protestante in Piemonte. Mio marito voleva proibirle di fumare ma io penso che avrebbe continuato di nascosto e così le si diede l’ultimatum: “O smetti o ti compri le sigarette con i tuoi soldi”.

 

Nel 1953 finalmente si liberò l’appartamento sopra il nostro in viale Macchiavelli; gli inquilini se ne andarono e noi avemmo quell’appartamento libero.

Mio marito con grande gioia cominciò a restaurarlo.

Non sapevamo con certezza se andavamo noi a stare lassù o se dovevamo affittarlo ancora quando capitò la grande disgrazia.

Una notte mio marito si sentì male; aveva dei dolori al petto e si svegliò di colpo. Gli diedi delle gocce che avevo per il mio cuore perché avevo avuto un po’ di nevrosi cardiaca dopo la guerra, gli misi una borsa di acqua calda sul petto così si riaddormentò. La mattina dopo egli si alzò e disse di sentirsi bene. Andò in cucina dove preparava sempre il caffè per sé e per me portandomelo a letto già preparato con il latte. Aspettai il suo ritorno perché a quei tempi avevamo una sola vestaglia calda e il riscaldamento era molto precario perché il termosifone non si poteva accendere anche se era febbraio e faceva freddo.

Mio padre andava avanti con le stufe a legna e noi con qualche stufetta elettrica.

Non vedendo mio marito venire, mi alzai anch’io e trovai la Romola che lavorava alle sue ceramiche e mi disse di aver visto passare il padre che dicendole: “Buongiorno” si era diretto verso il bagno.

Effettivamente il bagno era chiuso ma non a chiave. Cercammo di aprire la porta ma non si apriva perché dietro la porta era caduto mio marito che aveva avuto un infarto. Lo alzammo e ci rendemmo conto soltanto più tardi delle sue condizione quando chiamammo la Misericordia e gli operatori ci dissero che era morto.

Così fu un colpo tremendo per tutti noi, una vera disgrazia.

Mio marito morì l’11 febbraio 1954.

Per noi il momento era particolarmente difficile anche economicamente perché prima di avere la pensione di reversibilità doveva passare del tempo.

Così noi facemmo grandi debiti con mio padre tanto che decidemmo di vendere la casa di viale Macchiavelli, di dividere i soldi e di andare a vivere ognuno per proprio conto.

 

Intanto mi era capitata una cosa strana.

Devo ritornare un po’ indietro con la memoria per risalire ad un’amica ungherese, vedova di un professore universitario, che faceva la guida turistica per stranieri e lavorava per la ditta svizzera Kuoni che aveva sede a Milano.

Un giorno aveva proposto anche a me di fare quel lavoro dal momento che conoscevo tante lingue e che la gente cominciava a viaggiare e mi aveva fatto conoscere il capo della agenzia quando questi era venuto a Firenze. Poi per molto tempo non avevo più sentito nulla in proposito e un giorno, dopo qualche mese dalla morte di mio marito, ricevetti una telefonata da Milano; era quel signore che mi proponeva di fare un lavoro per la sua agenzia in estate. Io non ricordavo neanche di averlo conosciuto perché con i guai che mi erano capitati la memoria era svanita.

In ogni modo questa era un’occasione buona per guadagnare qualche soldo, così accettai di andare a lavorare per tre mesi, in estate, a Riccione, in un albergo dove venivano in vacanza degli inglesi. Bisognava andare a Milano o addirittura a Lugano ogni quindici giorni a prendere un gruppo che arrivava in treno da Londra, accompagnarlo a Riccione e poi fargli fare delle gite organizzate.

Lo stesso giorno che ebbi la telefonata da Milano mi telefonò anche una mia amica, Sibilla Campa, che aveva delle conoscenze in Germania.

Una agenzia tedesca le aveva proposto di fare l’accompagnatrice di turisti di Berlino in visita in Italia ma, non potendo accettare quel lavoro perché era già impegnata, mi aveva proposto di sostituirla.

Anche questo lavoro andò a buon fine perché la prima gita fu organizzata da questa agenzia in Italia per Pasqua; il gruppo arrivò accompagnato dalla proprietaria dell’agenzia stessa ed io feci fare un giro turistico a Firenze, improvvisandomi guida e spiegando le bellezze della città. Presi poi l’impegno di accompagnare il gruppo successivo quindici giorni dopo.

Ebbi questa fortuna al momento giusto; accettai entrambe le opportunità e così incominciò la mia attività di accompagnatrice turistica che mi impegnò per ventidue anni spesi sempre sulle quattro ruote o sulle ali degli aerei. Lavorai prima con Inglesi e Tedeschi poi con Americani e in seguito rimasi solo con Americani.

 

Mi fu molto di aiuto il fatto che le mie figliole erano abbastanza grandi per badare alla casa e a se stesse.

Avendo questo lavoro io non potevo più occuparmi direttamente di mio padre che era vecchio e stava sempre in casa.

La villa dove abitava nel viale dei Colli era troppo grande anche per noi; così decidemmo, d’accordo con mio padre, di vendere la villa e di comprare un appartamento per ciascuno.

Lui comprò un appartamento bellissimo in Erta Canina; chiamò una signora tedesca che conoscevamo a fargli da governante; si trasferì lassù e stette benissimo.

Io, non avendo avuto molto dalla vendita della villa, comprai un appartamento in via La Farina, una casa di nuova costruzione che pagai abbastanza poco perché aveva le finestre sulla ferrovia e perché era un pian terreno che in genere non è molto apprezzato. A me però piacque; era abbastanza grande e l’ultimo giorno dell’anno ci trasferimmo tutti. Non c’era ancora il gas e non si poteva cucinare, perciò la notte di S. Silvestro andammo a mangiare nella trattoria “Ada” che era in viale Mazzini e che esiste ancora.

Mio padre aveva comprato, quando venne in Italia, un’altra casa, un appartamento di due piani in una villetta in piazza Edison che era molto bellino con giardinetto e molte attrezzature comode perché era stato costruito da un tedesco. Capitò che verso la metà del 1955 l’inquilino di quella casa andò via; allora mio padre propose di andare ad abitare noi perché l’appartamento di via La Farina era un po’ piccolo.

La Romola allora aveva il suo studio-laboratorio in casa e nell’appartamento di piazza Edison poteva sistemare il laboratorio più in grande e consentire a tutti di abitare comodamente.

Allora facemmo un altro trasloco e ci trasferimmo in piazza Edison dove siamo stati diversi anni, fino al 1963.

 

A quei tempi per traslocare, si chiamava una ditta di traslochi che aveva grandi furgoni e, qualche giorno prima della data stabilita, arrivavano in casa delle ceste e delle scatole di cartone e noi mettevamo tutte le cose piccole e sparse in quelle ceste. Il giorno stabilito arrivava il grande furgone con quattro grandi uomini robusti i quali prima caricavano tutti i mobili, smontando tutto quello che si poteva smontare, in ultimo tutte le ceste e le scatole e trasportavano tutto nella casa nuova. Lì scaricavano tutto, rimontavano e sistemavano i mobili dove volevamo noi e lasciavano le ceste e le scatole.

Io nel tempo non ho potuto trasportare tutti i miei mobili nelle case nuove per cui ho dovuto venderne. Ho venduto prima la sala da pranzo, poi il salotto perché avevo delle poltrone e dei tavoli per fare un salotto più piccolo.

 

Nel 1957 mio padre morì; aveva 87 anni.

Un anno prima aveva voluto fare una cura di ringiovanimento che è stata per lui un po’ fatale. Forse se non l’avesse fatta avrebbe vissuto fino a 100 anni perché era un uomo sano.

Purtroppo aveva incontrato un ciarlatano, un ungherese che gli fece delle iniezioni di cellule vive le quali scombussolarono tutto il metabolismo di mio padre.

E così, un bel momento, dopo un anno in cui non era stato bene come prima, decise egli stesso di non voler più vivere. Si mise a letto; non si alzò più e non mangiò più e mi ripeteva: “Basta, basta”, perché aveva aspettato tanto un cambiamento di regime in Unione Sovietica per tornare al suo Paese in Estonia, ma invano. Aveva fatto apposta cremare mia madre per poter portare via l’urna. Stanco di aspettare, stette a letto tre giorni e una notte spirò.

Dopo questo evento, io ero l’unica erede di mio padre, di quello che era rimasto del suo patrimonio che aveva cercato di portare in Italia; così io avevo più possibilità finanziarie e comprai un bel pezzo di terra al cimitero degli Allori dove seppellii mio padre e portai tutti gli altri miei morti e dove c’è anche un posto per me e un altro per chi lo vuole.

 

 

Fino ai giorni nostri

 

Dopo la morte di mio padre, molte cose si spianarono.

Per esempio avevamo avuto anche una casa grande a Berlino la quale era stata distrutta durante la guerra; ci era rimasto il terreno e io potei venderlo e con il ricavato fui in grado di comprare un appartamento per mia figlia Isabella, la quale era fidanzata da qualche anno con Guido Sansoni, così loro poterono sposarsi ed entrare nella casa nuova.

Si sposarono il 30 giugno 1958 nella chiesa di S. Gervasio dove era parroco il nostro amico Giampiero Gamucci.

Non feci grandi preparativi per il ricevimento; predisposi un piccolo rinfresco in casa nostra in piazza Edison, incaricando una ditta di prepararlo. Avevamo circa cinquanta invitati, cioè erano i nostri amici più vicini, i datori di lavoro di Isabella, i parenti di Guido naturalmente tra i quali i cugini Ridi. Il matrimonio fu piacevole e non turbolento.

Intanto la Ciccina si era diplomata in musica e andò subito anche lei ad insegnare alla scuola media.

Le comprai una piccola macchina, una topolino, perché in giornata doveva andare e tornare a Pontassieve.

Al pomeriggio, quando tornava a Firenze, l’adoperavo io perché avevo anch’io preso la patente. Non mi piaceva guidare; non ho mai guidato bene però mi arrangiavo e, caso strano, le mie amiche bridgiste volevano sempre che io le accompagnassi a casa perché si fidavano della mia guida, in particolare la signora Mollica che aveva il terrore di andare in automobile. Raccontava di aver fatto il viaggio di nozze con il marito alla guida, con la porta dell’auto aperta e con un piede fuori; con me invece viaggiava con grande tranquillità.

La Romola, quando abitavamo in piazza Edison, lavorava molto con la ceramica; aveva delle amiche che le facevano dei lavori preparatori per poter soddisfare le richieste. Esportava in America soprattutto gioielli che erano molto di moda in quegli anni e poi specchi, sempre in ceramica.

Un giorno però decise che non voleva lavorare soltanto come artigiana ma anche come insegnante.

Allora fece l’esame di Stato ed andò ad insegnare alle scuole medie.

La Romola, insegnando e facendo contemporaneamente la ceramica, guadagnava abbastanza bene.

La parte sua di denaro, che io avevo ereditato da mio padre e che volevo dividere fra le tre figliole per l’acquisto di una casa, gliela diedi in contanti e così potè comprare un terreno a Monte Rinaldi dove i suoi amici, l’architetto Ricci e la moglie Angela, abitavano già. Ricci le fece il progetto per la casa ed ella incominciò a costruirla.

Dovette fare naturalmente anche un mutuo perché i soldi non bastavano mai e, i primi anni dopo aver finita la casa, la affittò.

Dopo alcuni anni, un bel momento si accorse che poteva permettersi il lusso di andare ad abitarla e così nel 1962 andò ad abitare per conto suo nella parte superiore della casa di Monte Rinaldi.

L’appartamento sotto il suo era affittato, però, essendo la casa di due piani in piazza Edison troppo grande per me e la Ciccina, ci trasferimmo nel piano terreno di Monte Rinaldi con il pianoforte e con tutti i miei mobili.

Si stette bene perché, avendo la macchina, anche per me non era scomodo.

Non potendo affittare bene la casa di piazza Edison, decisi di venderla, tanto più che avevo deciso di comprare anche un appartamento alla Ciccina, la quale da parecchi anni era fidanzata e non si sapeva quando si sarebbe sposata perché il suo fidanzato Giuseppe ancora studiava al Politecnico di Torino. Così vendetti la casa di piazza Edison e comprai per la Ciccina un appartamento in centro, in via Magalotti, completamente restaurato che è molto carino e molto piacevole.

Per impegnare tutti i soldi ricavati dalla vendita della casa di piazza Edison, in più comprai un altro piccolo appartamento in S. Croce, dove però c’erano da fare dei lavori.

La Ciccina dopo diversi anni , nel 1969, decise di sposarsi.

Liberatosi l’appartamento di via Magalotti, decise, sposandosi, di andarvi ad abitare con Giuseppe.

Allora io rimanevo sola a Monte Rinaldi che non mi piaceva e così cercai un appartamento in affitto in centro.

Ne trovai uno bellissimo proprio in piazza S. Croce dove mi trasferii e stetti benissimo per tredici anni.

Il marito della Ciccina, Giuseppe Longobardi, era il fratello di Bianca, una amica, compagna di studi della Ciccina, conosciuta al Conservatorio dove studiavano musica. Era un’amicizia fra giovanetti che è andata avanti per tanti anni ed evidentemente era diventata amore tanto che, appena Giuseppe trovò lavoro all’Istituto fisico-ottico di Arcetri, i due fidanzati decisero di sposarsi.

Il matrimonio avvenne nell’aprile del 1971 nella chiesa della Bella Campagnola.

Al mattino andarono in municipio, come voleva la Ciccina, e poi alle 18 in chiesa dove era arrivato dalla Sicilia lo zio monsignore di Giuseppe; dovettero fare i buoni bambini e andare a questa messa molto importante.

Il ricevimento si tenne alla sera in un bel ristorante sui viali dei Colli. Gli invitati non erano molti; delle figlie dell’Isabella fu invitata solo la Paola perché le altre erano troppo piccole. Dal Friuli arrivò anche la mia amica Carmen Ribini perché era la madrina della Ciccina.

Pochi anni dopo smisi anche di lavorare perché non c’era più bisogno di procurare soldi per la famiglia e perché la mia pensione mi bastava.

Feci l’ultimo viaggio con un gruppo di pellegrini americani nell’ottobre dell’Anno Santo e, quando l’ebbi spedito a Bordeaux, tornai a casa tranquilla.

Dopo mi sono goduta lo spettacolo dei gruppi turistici che giravano in piazza S. Croce, senza dover partecipare personalmente.

 

Vivendo ora per conto mio, potevo godermi di più le mie nipotine che nel frattempo erano diventate quattro.

La prima, Paola, è nata il 28 ottobre 1964; io e Guido aspettavamo che nascesse di notte e, siccome il mio compleanno è il 29 ottobre, speravamo nascesse il mio stesso giorno e invece venti minuti prima della mezzanotte è nata e suo padre fece il commento: “Ci ha fregati di venti minuti”. E’ stato un commento poco bello ma adatto al momento. In ogni modo, in seguito, abbiamo sempre festeggiato il nostro compleanno insieme.

La seconda, Caterina, è nata tre anni dopo nel 1967.

Dopo tre anni, è nata Teresa.

Quando i loro genitori andavano in vacanza, d’estate, la più piccola la lasciavano a me, così io, almeno per un mese all’anno, avevo la nipotina tutta per me.

Nel 1974 è nata Sara che è l’unica figlia della Ciccina.

Purtroppo la gravidanza fu molto difficile e dopo la Ciccina non potè avere altri figlioli.

Così le mie nipotine sono quattro ragazze alle quali voglio molto bene e anche loro sono molto carine con me, la loro vecchia nonna.

 

Gli anni che ho passato in piazza S. Croce sono stati molto piacevoli per me; avevo ritrovato delle vecchie amicizie, delle signore che giocavano a bridge e insieme giocavamo spesso. Era un pretesto per stare insieme e scambiare quattro parole.

Inoltre avevo sempre avuto la passione di viaggiare anche per conto mio e quindi ho continuato a girare il mondo nei posti dove non ero mai stata oppure a rivedere quelli che mi piaceva rivedere. Sono andata in Cina, in India; ho fatto un gran giro negli Stati Uniti a trovare le mie amiche di allora, viaggiando per un mese con i “grayhounds” che sono gli autobus americani.

Me la sono proprio goduta per tanto tempo ma un giorno mi accorsi che da un occhio non vedevo più bene; andai da un oculista il quale mi diede una brutta risposta dicendo che avevo un glaucoma. Questo glaucoma si poteva operare, però quello che era perso non si recuperava; allora trovai un bravissimo professore, il professor Barca, che aveva lavorato nelle ricerche con Giuseppe. Egli tentò di mandare avanti per qualche anno la malattia senza intervenire, però dopo decise di intervenire e mi fece l’operazione, la quale riuscì bene ma io non vedevo più come prima.

La famiglia non voleva più che restassi sola ad abitare in città, così la Romola decise di trasferirsi nell’appartamento più grande, al pian terreno della sua casa e di accogliermi per vivere insieme.

Per me all’inizio è stato un grande shock perché ero abituata a vivere sola e fare tutte le cose che volevo e ora non le potevo più fare perché non potevo guidare la macchina.

Piano piano i miei occhi si sono ulteriormente ammalati e così sono diventata sempre meno indipendente.

Sono rimasta a vivere con la Romola, la quale mi cura molto e, con l’assistenza delle altre figliole e delle nipotine, me la passo bene anche qui.

Quando ho bisogno di scendere in città mi accompagnano e mi riportano su e quando devo camminare fuori mi guidano bene perché ormai i miei occhi sono tanto compromessi che da sola non posso più andare da nessuna parte.

Sto in casa molto spesso e a lungo e faccio dei piccoli lavori di patchwork che mi riesce ancora di fare con un occhio solo.

Così faccio la vita tranquilla da vecchietta; non ho pensieri economici e anche la mia salute è abbastanza buona.

Spero di andare avanti così ancora per qualche anno.

Questa è la conclusione della mia vita che è stata molto avventurosa e abbastanza lunga ed ora mi accontento di una tranquilla vecchiaia.